Cristina Pallini, Federica Pocaterra


L’immigrazione è un fenomeno che produce comunque e ovunque tensioni e difficoltà. La città contemporanea tende ad allontanare dal suo corpo ciò che crea difficoltà: esclude, rinchiude, nasconde.
Deviante è ciò che ‘devia’ da un comune senso della convivenza, dal rispetto di regole stabilite, al di fuori delle quali ci si avventura nella diversità, fino a risultare destabilizzanti: anziani, poveri, disabili, malati, rei, immigrati, utili o inutili, comunque dissimili; norma e devianza. La città sembra essersi avvalsa spesso di questi criteri, per discriminare diverse componenti nel suo corpo sociale ma anche, attraverso le sue forme, per dare o negare espressione a diverse istanze
culturali.
I quartieri-dormitorio delle periferie post-industriali, le infinite distese di palazzi-contenitori senza qualità (autentici casermoni popolari o quartieri di villette in serie con portichetto prefabbricato e barbecue bifamiliare), sono moderni ghetti in cui l’edificio pubblico non compare mai a decongestionare separazione e incomunicabilità di chi è costretto a viverci. Diversamente dall’antica ‘fabbrica’ dell’ospedale, ad un tempo caposaldo urbano e congegno tipologico capace di concentrare studio e terapia, accoglienza e assistenza, molte delle attuali istituzioni assistenziali sono fuori dal tessuto storico, come cittadelle dell’isolamento e dell’alienazione, sorta di contenitori che nascondono i malati di mente, i tossicodipendenti, i malati terminali. Anche il carcere, estrema istituzione per la devianza che è stata capace – per
secoli – di promuovere episodi di simbiosi funzionale e insediativa, viene oggi ridotto a una ‘macchina’ per applicare le pene e quasi sempre allontanato dalla città, che riconverte le sue vecchie prigioni ad attività di tipo consumistico, rivelando tutta la renitenza dell’architettura a esprimere le contraddizioni e i conflitti della vita civile.
La città di oggi è ‘catalogata’ in una apparente indifferenziazione di forme, di ruoli, di risposte rispetto alle questioni che le vengono poste da chi vi entra come ‘straniero’; la città riflette nelle sue forme e nelle sue strutture l’atteggiamento della società contemporanea nei confronti dell’integrazione, improntato per lo più alla diffidenza, quando non all’esclusione. Il dato della mobilità, alla base del ‘progetto’ degli immigrati, deve fare i conti con le risposte della società ospitante, per contro storicamente improntate alla dimensione della stanzialità.
In Italia vi sono circa due milioni di migranti all’alba del 2000.
La Convenzione di Schengen, firmata nel giugno 1985 da cinque Paesi europei, mette in moto una strategia di prevenzione nei loro confronti, una filosofia di controllo e di limitazione delle libertà che identifica il migrante come portatore di pericolo, l’essere migrante come reato, trasformando l’Italia da una terra aperta a un Paese dalle frontiere chiuse e pregiudizialmente disposto nei confronti della presunta pericolosità dell’immigrato in quanto tale.
Sempre più spesso la città attuale individua nel valore ‘estetico’ la norma costruttrice e vincolante dei suoi processi di crescita. La capacità di ‘consumo’, l’omologazione alle regole, una cultura estetizzante che tende a eliminare dalla città ciò che trascende i canoni del consenso, ha sostituito sia la pluralità dei linguaggi architettonici che, nella città industriale e post-industriale, identificavano culture e destinazioni funzionali dal centro alla periferia, sia le regole dell’ ornato che nella città neoclassica vincolavano i caratteri formali degli edifici al loro specifico ruolo civile.
L’estetica della città come valore in sé favorisce un’architettura dall’espressione effimera, sempre meno capace di ‘comporre’ i molteplici riferimenti culturali e sociali dei suoi abitanti. L’importazione indifferenziata di modelli precipui appartenenti a culture sedimentate si contrae spesso in ridicolizzate ambientazioni (i quartieri etnici, i locali tipici,
i mercatini ‘equo-solidali’), d’altra parte l’esportazione acritica di icone della cultura occidentale (innanzitutto nei ‘santuari’ della civiltà dei consumi, i villaggi turistici di lusso, le catene delle multinazionali) riflette solo in maniera distorta la natura multietnica e pluriculturale della società contemporanea, annichilendo tradizioni e caratteri di
identità che potrebbero conferire nuovi tratti al volto della città.

Il tema dell’accoglienza porta in luce questioni strutturali e al contempo richiede una visione ‘politica’, capace non solo di affrontare la gestione degli spazi ereditati dalla storia (la trasformazione e la riconversione di strutture urbane e architettoniche), ma anche di promuovere e prefiguarare nuovi luoghi di vita associata, tali da corrispondere
ai bisogni abitativi, di relazione, di lavoro e di scambio delle popolazioni immigrate, al di là della pura emergenza.
La nascita di nuovi centri di attività gestite da immigrati per gli immigrati (la moschea, il bagno turco, la macelleria islamica, i call-center), esprime implicitamente una domanda di spazi di gestione o di socializzazione, affatto sconosciuti nella cultura dei paesi ospitanti, che può diventare un’importante occasione per il progetto urbano. I luoghi e le
differenze dell’abitare sono una parte importante della città plurale: la residenza può innalzare il gradiente di ospitalità della città quando, ai modelli condominiali convenzionali, contrappone una sperimentazione sul tipo che facilita la compresenza di molte specificità.
Spazi nuovi che si giustappongono all’esistente, aprendo un varco in un contesto a loro estraneo e spesso indifferente o addirittura ostile; spazi a partire dai quali potrebbero nascere nuovi comportamenti, non semplici espressioni di un cambiamento in atto all’interno degli equilibri urbani.

Spazida condividere, da gestire e da reinterpretare in architettura.
Spazi ed attività che, nella scena finale della
rappresentazione dell’architettura degli stranieri in un contesto contemporaneo, farebbero da coro all’azione dei principali artefici di questa scena: i luoghi pubblici della vita urbana, i luoghi della trasmissione dei saperi, i luoghi dell’incontro, del tempo libero, dello scambio: teatri, sale pubbliche, scuole,
spazi espositivi, mercati, piazze, parchi, strutture sportive. Luoghi davvero pubblici, capaci di riappropriarsi della complessità e della capacità di indurre comportamenti che solo lì la città è in grado di ritrovare, per realizzare concretamente la città degli stranieri. Una città che non si accontenti di semplificare i problemi cercando di nasconderli, ma che chiami l’architettura a farsene esplicita espressione: i teatri nel teatro, ‘l’ambiente di un teatro dove edificio e scena, attori e spettatori siano tutti chiamati a vivere un momento eccezionale che potrebbe avere come titolo Il ritrovamento della città.1

Veduta attuale di Firenze
Veduta di Erevan con il sobborgo cristiano, 1718

1. G. Michelucci, Un fossile chiamato carcere. Scritti sul carcere, Pontecorboli ed., Firenze 1993.

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Archeoclub d’Italia
movimento di opinione pubblica
al servizio dei beni culturali e ambientali

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