Con il calice nel cuore del mistero

Tratto da:
Chiesa Oggi 42
Architettura e Comunicazione

Con il calice nel cuore del mistero

 

Prof. Don. Antonio Santantoni Liturgista, Pontificia Università Lateranense


Prof.Don Antonio Santantoni

Visitare il tesoro d’una grande cattedrale o d’un santuario di grande rinomanza e devozione costituisce sempre un’occasione d’ammirazione che in certuni può anche tradursi in occasione di scandalo e di contestazione. Ad quid perditio haec? si chiedeva Giuda davanti al gesto munifico e splendido della peccatrice che sparge un intero vasetto di preziosissimo unguento sui piedi del Signore Gesù ricevendone in cambio il perdono. Che fare di tutti quei paramenti di prezioso broccato, di raffinati damaschi, di miracolosi ricami frutto di anni di lavoro di abilissime mani sostenute da una tecnica miracolosa e da una passione che lascia ancora oggi (o forse oggi più che mai) ammirati e commossi?
Figuriamoci allora cosa può accaderci, visitando il tesoro dei tesori della Chiesa latina, il tesoro del successore del principe degli Apostoli, il tesoro del papa. Doni sontuosi e splendidi, prodigi d’arte raffinatissima, preziosissimi per materiali e per esecuzione, doni di re e imperatori, nobili e prelati, città e nazioni, simbolo d’un potere e d’un’autorità che vengono dall’Alto, e accettata e riconosciuta dal basso, dal popolo dei credenti e dei suoi pastori. Qui vogliamo limitarci a una voce tra le tante che compongono la superba sinfonia di quelle innumerevoli testimonianze: il calice. Vi sono oggetti che vivono molte vite, a livelli diversi. Che non si limitano a essere una cosa sola, quella cosa cui le destina la funzione per la quale sono state pensate e volute. Si tratta d’oggetti capaci di trascendersi e di diventare molte cose in una, racchiudendo in sé memorie e speranze, progetti e esperienze, passioni contrapposte e antitetiche come la devozione e il disprezzo, l’odio e l’amore. In una parola di diventare simboli. Il calice (il bicchiere o coppa nel quale il prete consacra il vino eucaristico) è uno di questi, e in verità, uno dei più pregnanti ed eloquenti. Per sé il calice non è che un bicchiere, sia pure di forma particolare: alto, a coppa diritta o svasata, rettilinea o a campana rovesciata, sorretta da un fusto, di lunghezza assai variabile (dai pochi centimetri ai 15-20 dei calici più monumentali) spesso interrotto da un nodo per una presa più sicura, una base (piede) larga e pesante abbastanza da garantire stabilità al tutto. Non mancano neppure calici a forma di bicchiere basso e tozzo.
Come la forma, anche la materia può essere la più varia: oro, argento, platino, vetro, ceramica, avorio, cristallo di rocca o di pietra dura. Per abbellirlo e impreziosirlo nulla è eccessivo: diamanti, smeraldi, coralli, smalti, topazi, rubini, perle, acquemarine e infinite altre. Sbaglierebbe chi considerasse tutto ciò come un discorso puramente estrinseco e superficiale. Valgono per il calice le stesse considerazioni che valgono per la croce: c’è la croce nuda e pesante, di legno rozzo e appena sgrossato, simbolo di supplizio e di pena, di martirio e di morte. E c’è la croce gemmata, splendente e preziosa, artisticamente scolpita o cesellata, simbolo di gloria che esalta i paliotti degli altari, i petti degli eroi, le corone dei sovrani. Questa croce è trionfale simbolo di risurrezione, di vittoria della vita sulla morte. Così è per il calice. Che senso avrebbe celebrare e venerare il simbolo d’una sconfitta? Se il sacrificio di Cristo si esaurisse nella sua morte e nel suo sangue versato, perché comunicare ad esso?
Solo la presenza del Vivente giustifica la mia adesione di fede. E tuttavia il calice rimane uno dei più eloquenti simboli di sacrificio e di morte. In esso sono raccolte le stille di sangue versate da Cristo nella mistica agonia del Getzemani, il sangue colato sul suo corpo dalle ferite delle battiture e della corona di spine, il sangue versato dalle mani e dai piedi forati del Crocifisso e sgorgato dal suo costato trafitto e raccolto dagli angeli in lacrime, secondo l’ingenua e commovente iconografia medievale. Il sangue versato come prezzo della nostra salvezza e per la nostra redenzione. In questo senso c’è posto per il calice povero e nudo, umile e vile dei perseguitati e delle vittime della povertà, della malattia, della fame e della sete che uccidono. Tra le decine di calici d’oro massiccio e d’argento dorato tempestati di pietre preziose, commuove la presenza nel tesoro papale d’un umile bicchiere a calice, di vetro, con una sottocoppa di metallo vilissimo: è il dono fatto a Giovanni Paolo II dai reduci dalle prigioni e dai campi di lavoro forzato dei regimi comunisti dell’Europa orientale: ogni Messa celebrata con quel bicchiere era un mettere in gioco la propria vita. Il papa in persona ha voluto che trovasse posto tra quei tesori, a memoria d’una pagina della sua vita e della storia della sua amatissima terra.
La morte e la gloria: tutte e due vanno a colmare la coppa d’un calice, il più amaro e il più dolce che sia dato all’uomo di gustare. E tale è la forza evocatrice del simbolo che basta la sua figura a trasmettere un messaggio. È recente la polemica su una vignetta apparsa sulla locandina della mostra dell’umorismo di Foligno: un calice sormontato da un’ostia sulla quale, al posto del classico simbolo eucaristico, dominava l’inconfondibile simbolo del dollaro statunitense, il classico $, mito e dannazione del nostro tempo. Si è gridato all’irriverenza e perfino alla blasfemia, e non mi sentirei di escludere del tutto tale intenzione. Non è da oggi che ci sentiamo ripetere che la chiesa è un mercato e non sono pochi i prelati che lo lamentano.
Perché meravigliarsi se anche un laico o un anticlericale lo dice? Ma io ho trovato possibile anche un’altra chiave di lettura: e se quell’immagine avesse voluto esprimere condanna a un mondo che sa rendere tutto mercato, anche i sentimenti più puri ed elevati e nobili come appunto la fede? Se la condanna fosse piuttosto rivolta a un mondo che ha cancellato Dio dal suo panorama per imporre un nuovo idolo sul suo altare, Mammona? Anche se non fosse stata questa l’intenzione, potrò sempre leggerla così.

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