“Alle Soprintendenze si chiede sensibilità verso le esigenzedel culto”

Diretto da: Carlo Chenis
Periodico allegato a Chiesa Oggi architettura e comunicazione

Alcune domande a S.E. Mons. Mansueto Bianchi

"Alle Soprintendenze si chiede sensibilità verso le esigenze del culto"

L’adattamento degli edifici storici alle esigenze della nuova liturgia

S.E.R. Mons. Mansueto Bianchi, Vescovo di Volterra, è Responsabile della Consulta per i Beni Culturali della Conferenza Episcopale Italiana.

A quaranta anni dal Concilio, si può forse volgere lo sguardo indietro e valutare un poco quel che è successo, quanto a organizzazinoe dello spazio liturgico, cavandone indicazioni su come proceedere per il futuro. In particolare, sull’adeguamento dei presbiterii: ritiene che vi sia qualche esempio particolarmente significativo da indicare e commentare?
La vicenda che ha vissuto la Chiesa in Italia in questi 40 anni di post Concilio, segnatamente per quanto riguarda la riforma liturgica, ha reso evidente una cosa: tale riforma non è stata e non poteva essere una rivisitazione “tecnica” di formule, gesti, indumenti, architetture. Riforma liturgica vuol dire trasformazione ecclesiologica, cioè cambiamento e riformulazione della comprensione del “mistero” della Chiesa, nel suo rapporto al Signore e nella sua presenza al tempo, nella sua missione al mondo. Una reinterpretazione architettonica dello spazio presbiterale perciò non è primariamente una redistribuzione di spazi, di collocazioni, di volumi, giocati sul mero criterio estetico o funzionale, è invece una traduzione nel linguaggio proprio dell’architettura e dell’arte di questo nuovo “volto” che la Chiesa ha ricevuto dal Concilio e del nuovo “stile” di relazione che la rapporta a Dio e agli uomini. Mi pare che lo spazio presbiteriale sia stato il più “faticato” di questi decenni, sia per gli sforzi di ricerca, per l’impegno di nuove soluzioni, sia talora per gli scempi (forse era inevitabile?) frettolosi e sommari con cui si è liquidato un patrimonio artistico ed architettonico che meritava miglior destino. Vedo che nell’adeguamento dei presbiteri si individuano, giustamente, alcune preoccupazioni: quello di creare uno spazio funzionale alla celebrazione della Liturgia rinnovata, quello di raccordare i nuovi interventi con l’ambito architettonico ed artistico preesistente, talora in linea di continuità, talaltra di una recepibile innovazione, quello di impegnarsi in un linguaggio simbolico che supera la sola preoccupazione funzionale, quello infine di evidenziare i tre luoghi qualificanti del presbiterio: l’ambone, la sede presidenziale e, soprattutto, l’altare. Ritengo invece che, in molti casi, non sia stata trovata una soluzione soddisfacente per il tabernacolo o, come adesso si dice, la custodia eucaristica. Lei mi chiede di indicare qualche esempio positivamente significativo: la risposta potrebbe essere assai soggettiva e perciò quanto mai discutibile. Citerò solo un esempio che mi ha interessato molto (ed è ormai un classico): il presbiterio del Duomo di Milano.

Parlando di adeguamento, l’attenzione è appuntata in prevalenza sulla collocazione dell’altare; quali potrebbero essere le linee-guida per avvicinarsi al problema dei rapporti tra i principali luoghi liturgici?
L’altare, nel linguaggio liturgico e simbolico, è il centro del presbiterio ed il punto di riferimento e di approdo di tutto il dinamismo architettonico dell’edificio – Chiesa. Esso è il simbolo di Cristo, l’irradiazione di tutto il dinamismo liturgico e sacramentale: traduce nell’architettura ciò che Cristo è nella vita di un credente. L’altare sta nel presbiterio come luogo del sacrificio e mensa della convivialità, ara e convito, in cui i fedeli ricevono l’Agnello immolato della nuova Pasqua. Non siamo perciò di fronte ad un “arredo” della struttura o ad un “corredo” della celebrazione: l’altare è il luogo di più denso valore simbolico e sacramentale. Occorre dunque che rappresenti il fulcro generativo dell’intera struttura, il riferimento ed il rimando degli altri “luoghi” liturgici (ambone, vasca battesimale, sede del celebrante, Croce, spazi per il Sacramento della Riconciliazione, tabernacolo, ecc…), il punto di convergenza dell’intera assemblea che partecipa alla Celebrazione. Ogni altro luogo della chiesa deve poter evidenziare la propria continuità rispetto all’altare, ma anche rilevarne l’alterità e l’eminenza. L’altare deve perciò essere unico (dove e quando possibile) perché uno è il Capo, Cristo, e uno il Corpo, la Chiesa; da tutti visibile e partecipabile perché ciascuno ad esso è chiamato. Deve consentire la celebrazione rivolta verso l’assemblea e la concelebrazione per significare l’unità del ministero ordinato e la sua finalizzazione a servire l’incontro tra la Chiesa ed il suo Signore; costruito in materiale di pietra naturale e quadrangolare perché simbolo di Cristo, pietra angolare su cui rimane edificata la Chiesa della forza della Parola e dei Sacramenti.

Nelle cattedrali delle quali Ella ha diretta esperienza, ritiene che sia stato soddisfacente l’adeguamento realizzato?
Nell’insieme mi pare che l’adeguamento sia soddisfacente. Noto alcuni punti di tensione, ricorrenti in contesti diversi, che non mi paiono sempre ben risolti.
– Il rapporto con l’antico altare, talora condotto a dorsale per la sede del celebrante, talora rimasto lì a pura testimonianza storica, ma non integrato nella nuova disposizione del presbiterio.
– La collocazione del tabernacolo, dove non esiste una specifica ed adeguata cappella. Spesso la sua collocazione nel presbiterio appare impacciata, aggiuntiva, posticcia. E’ un elemento non ben metabolizzato e questo dispiace e preoccupa.
– Soluzioni valide e funzionali per i presbiteri molto rialzati rispetto al livello dell’assemblea, spesso con sottostante cripta.
– Noto infine un dialogo architettonico e stilistico in atto nell’integrazione del nuovo presbiterio con l’esistente: si oscilla da una rigorosa continuità di stile, che prevede reimpieghi di materiale o addirittura imitazioni, ad una discontinuità inusitata, quasi esibita, certo con l’intento di ritagliare il nuovo intervento sull’antico tessuto per notificarlo immediatamente all’osservatore.

Vi sono due esigenze, quella conservativa, di cui si occupano le Soprintendenze, e quella ecclesiastica, di rendere le chiese adatte alla celebrazione. Quali le vie da percorrere perché il dialogo tra Curie diocesane e Soprintendenze sia proficuo?
Vede, la Chiesa come luogo della Celebrazione Liturgica, si colloca su una linea di frontiera: essa deve raccogliere la vita e perciò gli spazi ed i tempi dell’uomo, per aprirli e trasfonderli nel tempo “altro” che è il tempo di Dio, l’incontro e la comunione con la Sua Vita. Pertanto l’architettura diuna Chiesa ha questo compito formidabile e difficile: segnare al continuità con il quotidiano fino a condurlo sul limite, fino ad aprirlo e consegnarlo all’ “oltre”. Temo che, soprattutto da parte delle Soprintendenze, non sempre ci sia sensibilità a questo aspetto, o meglio che si intenda questo “tempo altro” come “tempo arcaico”. Perciò la giusta e necessaria preoccupazione del tutelare e conservare diventa l’unica e risulta paralizzante di intelligenti tentativi e ricerche di composizione di esigenze diverse e talora in tensione tra loro. Lei mi chiede quali vie percorrere perché il dialogo sia proficuo. Direi che la risposta è nella domanda stessa: la via da percorrere è il dialogo, senza arroccamenti, apoditticità e, men che meno, arroganza. Rilevo come la recente Intesa sui Beni Culturali tra la CEI ed il Ministero indichi e percorra proprio questa via maestra, ponendo il principio della concertazione tra Soprintendente e Vescovo Diocesano, come pure individuando due sedi di “appello” per sciogliere tensioni e conflitti: una a livello regionale, l’altra nazionale, ma sempre con il criterio del confronto e del dialogo per individuare una soluzione possibile.

Spesso negli interventi di adeguamento, si sottolinea la necessità della “reversibilità”: non si corre il rischio a volte di compiere cambiamenti che appaiono effimeri e quindi forse anche estranei alla nobiltà del luogo?
Il criterio della “reversibilità” appare ampiamente applicato e richiesto (soprattutto dalle Soprintendenze) per consentire un adattamento degli edifici storici alle esigenze della nuova Liturgia. Evidentemente esso suppone che sia preponderante il principio conservativo su quello reinterpretativo e perciò considera definitivo lo status quo ed effimero e rivedibile l’intervento di adattamento. In ogni caso è un criterio che ha dignità culturale e rende possibile una serie di interventi nella linea della riforma liturgica. Bisogna molto insistere e vigilare perché un progetto o un intervento, dal momento che è reversibile, non sia anche banale, posticcio o comunque non adeguato alla nobiltà del contesto in cui si colloca. Credo che sia questa una sfida difficile ma esaltante per l’architettura oggi: confrontarsi con le grandi espressioni della bellezza e dell’arte e conquistarsi sul campo i titoli di credibilità ed affidabilità.

(L.S.)

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