Umberto Cao


Periferie?
La periferia moderna è nata in contrapposizione con il centro storico.
Quando nel 1931 Gustavo Giovannoni scriveva che l’aspetto tipico delle città o delle borgate ed il loro essenziale valore d’arte e di storia risiedono soprattutto nella manifestazione collettiva data dallo schema topografico, negli aggruppamenti edilizi, nella vita architettonica espressa nelle opere minori estendendo il concetto di salvaguardia dall’edificio in sé a brani interi di città, a piccoli o grandi agglomerati urbani anche sprovvisti di particolari requisiti monumentali, postulava tre fatti nuovi: il superamento dell’‘antico’ come semplice archeologia; la qualità urbana come esito di valori etici più che estetici; i valori sociali e popolari dentro il concetto di ‘centro storico’. Ma in questo modo – per contrappunto – decretava la nascita anche del concetto di periferia moderna. Infatti tutto quello che non era: memoria di una manifestazione collettiva, testimonianza sacralizzata dal tempo, il risultato di una cultura borghese fondata sul benessere economico e sulla egemonia sociale, diventava periferia.
Così il termine periferia (dal greco periphereia, circonferenza) nacque portandosi appresso un valore puramente negativo: ciò che ‘stava attorno’, ciò che perimetrava e separava, che era margine e quindi e-marginato, che non aveva un valore proprio. La periferia come assenza e come vuoto. La periferia come città moderna, appunto!

Il margine ha uno spessore: diamo qualità a questo spessore
Il punto di frizione del dibattito si spostava proprio attorno al limite temporale, ma anche topografico, lungo il quale passava la discriminazione tra città storica e città moderna. Un’area di confine che coincideva con il tentativo di recuperare una qualità alla residenza borghese.
Le aree urbane intermedie, nei decenni tra Ottocento e Novecento, erano l’occasione di grandi investimenti immobiliari che regolavano l’espansione urbana ospitando i ceti medi. La città, almeno quella industriale europea, si divise così in tre parti: centro storico, quartieri residenziali con case di affitto, periferia operaia. E così sarebbe rimasta per tutto il secolo.
Soprattutto in Italia il conflitto intuito da Giovannoni – centro storico versus periferia – è restato determinante a lungo.Vediamone lo sviluppo.

Città-periferia-diffusa
Città di margine

L’inizio (anni 50-60)
Dopo lo straordinario contributo del Movimento Moderno sull’urbanistica e sul destino della città, nel dopoguerra il problema era ricostruire le città distrutte, ridare case e servizi, fissare i criteri per l’espansione urbana. In particolare in Italia, dove mancavano le regole per un serio e disciplinato sviluppo, abbiamo assistito ad un doppio fenomeno: da una parte l’abusivismo che tornava utile per integrare i ritardi dell’intervento pubblico, dall’altra le ‘mani sulla città’ di chi cercava di trarre profitto privato dalle necessità della ricostruzione.
La crescita delle città nelle periferie faceva da contraltare all’emergente dibattito sulla conservazione dei centri storici. Così tanto più acquistava qualità la città storica, tanto più andava in degrado quella contemporanea: la ‘forbice’ era molto aperta! Fuori del gioco restava la ‘campagna’ – che in realtà interessava poco – appena contaminata al centro-sud dagli incentivi per i nuovi insediamenti industriali pilotati dalla Cassa per il Mezzogiorno.

Il progetto urbano ed il recupero (anni 70-80)
Arrivano anche in Italia le regole con le leggi sull’Edilizia economica e popolare che consentono la realizzazione di interventi pubblici in periferia: è la grande dimensione del progetto urbano. Nell’arco temporale di dieci anni le città si gonfiano e il problema dell’abitazione sembra almeno in parte risolto. Ma non si può tenere separato il problema
della città storica da quello della sua espansione. La forma delle città antiche, sino ad allora oggetto di egemonia del sapere storico, diventa materia di architetti. È la stagione degli studi urbani, delle analisi sul rapporto tra tipologia edilizia e morfologia urbana, delle riflessioni sulla permanenza dei monumenti e dei tracciati, più in generale sono stati venti anni nei quali la storia dei fenomeni urbani è diventata la ragione stessa della trasformazione della città consolidata. Ma sempre ‘dentro’ la città, dentro i perimetri della storia, senza intaccare i margini indefiniti e conflittuali delle nuove periferie. E soprattutto ancora senza parlare di quanto stava accadendo ‘fuori’, dove l’indignazione
per la proliferazione edilizia soprattutto con le seconde case più o meno ‘legali’ restava confinata in ambito intellettuale e politico senza un dibattito specialistico consapevole e determinato.

Città della dismissione
Città della segregazione

La città senza confini (fine millennio)
Mentre si disc
uteva di città storica o periferia, di conservazione o trasformazione, di legalità o abusi, di leggi speciali o governo del territorio, più velocemente di quanto il dibattito avesse potuto prefigurare, la città cambiava forma e modalità di sviluppo: nelle grandi metropoli – ormai soprattutto orientali – la città orizzontale è progressivamente
sostituita da quella verticale, mentre la piccola e media città esplode oltre i suoi stessi confini storici e istituzionali disperdendosi in quelle che una volta erano le ‘campagne’. Caduto il muro, le ideologie, ma anche la pacifica convivenza tra il mondo occidentale e quello orientale, proprio in questi anni veniva meno l’egemonia dei mercati tradizionali e con essa la fiducia nel futuro. Da qui l’esigenza di riconsiderare i confini dello sviluppo e di fondare una nuova dimensione del dibattito attorno ad alcune parole chiave: sostenibilità, compatibilità, salvaguardia. Si diffondeva nel frattempo l’uso di un vecchio termine di derivazione visibilista e fenomenologica, il ‘paesaggio’, che acquistò nuovi significati, coerenti con le nuove problematiche sulla città e sul territorio.

Il Paesaggio (dal 2000)
Nell’ottobre del 2000 è stata firmata la ‘Convenzione europea del paesaggio’. La nuova accezione di ‘Paesaggio’ – ‘… una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni’ – ha ‘sterilizzato’ le periferie.
Preoccupa che questa definizione vada bene a tutti: agli architetti di formazione ‘tradizionale’, che possono continuare a lavorare sulla trasformazione dell’esistente lasciando ad altri i campi più impegnativi delle nuove forme della città diffusa; alle avanguardie architettoniche, che invece possono sperimentare nuovi dispositivi formali con l’alibi
dell’impatto minimo (architetture ipogee, architetture di suolo, architetture degli spazi aperti, architetture dei giardini …); agli esperti di bioarchitettura, con il loro repertorio di tecnologie alternative ‘compatibili e sostenibili’; agli studiosi della città contemporanea che possono assimilare al concetto di paesaggio l’intera complessità dell’ambiente abitato sia nella qualità come nel degrado; agli urbanisti tradizionali, legati al concetto di vincolo e di separazione tra città e campagna; agli urbanisti innovatori e paesistici, alla ricerca di nuove modalità di salvaguardia della natura e di governo del territorio; a biologi, etnologi, storici e geografi, ma anche ai politici, alla ricerca di riferimenti culturali e di consenso per gestire il territorio.
Definitivamente esorcizzata dal concetto di Paesaggio, resta la ‘periferia’ come categoria concettuale che ci rimanda ad una città incompiuta e in trasformazione, permeabile ed aperta, sempre in equilibrio instabile. È come se la periferia con tutte le sue caratteristiche e tutti i suoi problemi si fosse scomposta e polverizzata nei singoli temi: vediamo i luoghi e le condizioni di questa città-periferia.

Città della mobilità
Città sulla infrastruttura
Città della sperimentazione

Città di margine. Le aree portuali e a volte anche le aree ferroviarie – aree estreme prima di un confine netto come la costa – portano ancora i segni di una periferia. Sono luoghi disponibili ad accogliere ogni forma e ad ogni trasformazione.
Città della dismissione. L’area dismessa riproduce i fenomeni della periferia: degrado degli edifici, abbandono, rifugio, ma anche una risorsa di suolo e volumi da recuperare per nuovi destini urbani.
Città della segregazione e delle enclave. Un economista francese, Jean Paul Fitoussi, ha scritto ‘… in ogni epoca le città sono state caratterizzate da quartieri ricchi e quartieri poveri; ma la segregazione non subentra se non nel momento in cui la mobilità tra queste realtà viene ridotta o impedita …’. Chiamiamo quindi ‘città-periferia’ anche la città suddivisa in ambiti chiusi e protetti, nella quale il conflitto nasce dalla impossibilità di transitare da un ambito all’altro.
Città della mobilità e delle relazioni. I luoghi dell’attraversamento sono una vecchia definizione ancora valida per definire i luoghi pubblici dello svago e del commercio, instabili e temporanei, immersi nel paesaggio urbano diffuso. Allora è periferia la città delle grandi dimensioni, nella quale però la distanza è solo spaziale, ma non temporale: ci si muove velocemente e le distanze reali (in termini di tempo) non sono diverse da quelle della ‘città-centro’.
Città lineare che cresce sulle infrastrutture. È ‘città-periferia’ quella delle grandi espansioni che seguono le tangenziali e i grandi raccordi anulari, che si addensano attorno ai grandi nodi infrastrutturali. È città legale, ma spontanea, regolamentata, ma senza progetto.
Città della sperimentazione. È ‘città periferia’ anche quella della sperimentazione ambientale: biotopi, bioparchi, parchi scientifici. Ma anche quella dove si possono attuare nuovi modelli abitativi e nuove tipologie edilizie. Qui la periferia diventa luogo della ricerca e della sperimentazione, e quindi anche delle energie del cambiamento, restituendo valore e speranza al progetto.

Unicam - Sito ufficiale
www.archeoclubitalia.it
Archeoclub d’Italia
movimento di opinione pubblica
al servizio dei beni culturali e ambientali

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