Sugli arredi ‘sacri’

Prof. Arch. Roberto Gabetti

Una tendenza al ritorno alle origini, male inteso, ha portato dal dopoguerra alla crescente ripresa di modelli paleocristiani, con particolare successo nella produzione di nuovi paramenti. Al riferimento alle origini si contrappone oggi una seconda tendenza, totalmente contraria a ogni forma tradizionale: una tendenza minimalista, antropologica. In nome di questa linea di rigorosa innovazione si tende ad affermare che l’Eucaristia può essere celebrata ovunque e comunque, evadendo anche rigidi riferimenti ai testi, ai modi, ai luoghi, usando per la celebrazione eucaristica qualsiasi oggetto domestico. Ma è pur vero che se i luoghi e gli arredi entrano nelle esperienze della vita quotidiana, possono anche entrare, e non ambiguamente, nelle azioni liturgiche, con un peso, forse non determinante, ma certamente essenziale. Come mensa eucaristica non può certo essere utilizzata qualsiasi cosa, purché diversa da un altare; né ci si può dimenticare che l’altare ha conservato, anzi ha ripreso in modo generalizzato il suo carattere di mensa. Un singolare aspetto della cultura contemporanea circa gli oggetti per il culto, può essere visto in relazione ad un maturo approfondimento di quanto ci ha insegnato il Vangelo. Quando si attribuisce valore sacro soltanto all’uomo, secondo la linea precisa delle Sacre Scritture, si viene parallelamente a sottrarre sacralità alle cose materiali, anche se destinate al culto. Questa caduta di specificità dell’arte “sacra” è connessa a una riaffermazione di valori autenticamente religiosi, validi soprattutto per il cattolicesimo postconciliare.
Fino a ieri, fino a oggi stando ad alcuni manuali, l’arte sacra comprendeva edifici, chiese e conventi, mobili per celebranti e per fedeli, quadri e statue a soggetto religioso, oreficerie destinate al culto: tutti questi arredi “sacri” in quanto tali, erano catalogati a parte, separati rispetto a costruzioni-arredi-oggetti coevi ma destinati ad uso profano. Queste differenze fra la sfera del sacro e la sfera del profano sono rimaste in passato più o meno marcate: tra la serie di quadri a soggetto religioso di un autore qualsiasi, almeno dal Seicento si riscontrano precise diversità, anche di stile; e così, in maniera sempre più marcata con il passare dei secoli, tra un bicchiere di uso corrente e un calice. Fino a specializzare nell’Ottocento e nel Novecento autori pii, oggetti per il culto con differenze evidenti da quelli di uso profano: fino a rendere quasi irriconoscibile, da allora in poi, un tavolo rispetto ad un altare, un servizio per la celebrazione eucaristica rispetto a un servizio da tavola. Si constata però come oggi, in pratica, una chiesa potrà essere o non essere semplicemente un salone, un calice può o non può essere un bicchiere. Se si vuole negare in linea di principio questa ambiguità, occorre allora rifarsi a nuovi valori, che riconosciamo oggi specifici per le celebrazioni eucaristiche, senza richiamarsi alla tradizione, assunta come modello: proprio perché il “sacro” non può appartenere in modo univoco al mondo delle cose. Una linea povera, segnata da pochi oggetti d’arte, da pochi arredi significativi, può riflettere una nuova lettura delle Sacre Scritture. Ma questa linea è ben diversa dalla riduzione funzionalista, divenuta riferimento necessario per alcuni settori operativi della Chiesa: questa ultima linea mortifica la tradizione, la teoria, l’analisi delle nuove esigenze della collettività, in una società frustrata proprio dall’enfasi concessa agli incentivi del progresso. Se la posizione dei cattolici deve segnare un sostanziale rispetto della cultura dei non credenti, deve a sua volta elaborare una sua specificità essenziale, espressa anche attraverso immagini ed oggetti: senza rinunce, senza silenzi, ma anche senza la tendenza a differenziare a tutti i costi il “sacro” dal profano. Si potrebbero oggi individuare alcune linee principali nel settore degli oggetti per il culto:
– L’uso integrale di oggetti preesistenti: può prevalere in chiese antiche, ma anche in nuove chiese: quadri, sculture, antichi oggetti per il culto possono essere reimpiegati bene, attingendo da magazzini, facendo opportuni spostamenti. Operazione, questa, alla portata di molti, poco costosa, attuabile necessariamente con l’intervento di un esperto (le conseguenze di tali mutamenti possono essere molto importanti e quindi stravolgenti rispetto all’uso primitivo). Nel corso di tali mutamenti occorre infatti fare attenzione alla continuità e coerenza fra vecchi usi e usi attuali, tenendo conto dei significati anche simbolici legati alla tradizione.
– Il recupero di oggetti preesistenti, ma modificati: è diventato di uso corrente presso una certa borghesia decadente. Già D’Annunzio al principio del Novecento impiegava ad usi impropri, anche profani, oggetti di chiesa: ma usava anche trasformare un armadio in vetrina, una console in testata per un letto, un architrave come stelo di lampada, ecc. Il seguito di tutte queste trasformazioni, intese come operazioni del buon gusto borghese, è tale da non dover essere descritto. Questo andazzo è ora, direi, del tutto abbandonato, almeno in ambienti di una certa cultura. Non è però che una tendenza così diffusa non abbia avuto effetti anche nell’ambito degli oggetti per il culto. L’abolizione, talora inopportuna, di antichi pulpiti ha suggerito spesso l’idea di trasformarli in amboni: il sacerdote pare così immerso in una grande vasca da bagno. La necessità di rivolgere la mensa dell’altare verso il popolo ha portato spesso a smembrare antichi altari per recuperarne pezzi impropri a definire una mensa per la nuova liturgia: appaiono così simboli fuori luogo, oggetti fuori scala. La rimozione di balaustre – quasi sempre inopportuna quando i presbiteri sono antichi – ha reso disponibili le stesse balaustre per progettare e realizzare mense, amboni, sedi: si ottiene così l’effetto dequalificante di far perdere alla mensa, all’ambone, alla sede il loro carattere, interpretandone la presenza liturgica a livelli puramente decorativi o monumentali. Il recupero di reperti archeologici ha spesso consigliato la formazione di altari con pezzi di arte antica greca e romana – spesso anche un’ara: e qui si tratta di veri “controsegni”, essendo l’ara simbolo opposto all’altare.
– La progettazione ad hoc, per una chiesa, esistente o nuova, di arredi adatti: rappresenta una soluzione ottima, specie perché pone gli oggetti per il culto in una più esatta proporzione o scala con l’edificio e in continuità di impostazione con questo. Si tratta di soluzioni uniche, che dovrebbero essere facilmente riprese in casi consimili.
– L’impiego di oggetti di grande serie quali oggetti per il culto: deriva anche dal concetto tutto recente che anche un prodotto di serie può avere “valore d’arte”: fatto questo generalmente riconosciuto in sede critica. Questa linea è stata enfatizzata al punto da far ritenere la “serialità” una qualità d’arte di per sé valida, intrinsecamente valida. In sede di industrial design l’oggetto è prodotto in base a un unico progetto – filtrato attraverso disegni, simulacri, modelli, – prove sperimentali: la soluzione scelta è resa conforme ai procedimenti produttivi prescelti, all’estensione della serie presente, alla possibilità di immagazzinare il prodotto; e quindi anche a questioni di mercato. Per oggetti di facile trasporto il mercato può dirsi teoricamente planetario: la stessa cattolicità della Chiesa potrebbe quindi costituire base di mercato per oggetti per il culto prodotti secondo sistemi di industrial design. Ma questo mercato non c’è mai stato, se non a livelli qualitativi bassissimi: è quindi difficile ipotizzarlo. Al di fuori di processi di grande serie, artigianali ma soprattutto industriali, non si può pensare ad uno schietto industrial design.
– Oggetti di uso comune utilizzati come oggetti per il culto: si tratta del tentativo di riprendere una proposta che è affiorata in alcuni esempi rari: (già Le Corbusier aveva attuato questa proposta negli anni ’20, per gli arredi e per gli oggetti destinati alla casa razionalista). Si tratta del ricorso agli oggetti comuni intesi come luoghi comuni, come riferimenti scontati: secondo una linea di “anti-design” (che può essere detta, riprendendo la citazione anni ’20, anti Bauhaus). Secondo questa non vale la pena di disegnare sedie e poltrone (c’erano da decenni quelle in faggio curvato prodotte da Thonet), bicchieri e bottiglie (c’erano quelle di uso corrente, in Italia “commemorate” da Morandi), e così via. Il prodotto comune può indifferentemente provenire dall’artigianato o dall’industria. L’essenziale è che sia comune, e quindi di serie, che sia soprattutto riconosciuto come tipico: sedie, bottiglie, come ognuno se le immagina, come tutti usualmente le impiegano. Il prodotto può anche provenire da luoghi lontani (dal Terzo Mondo). Il ricorso a questo vastissimo repertorio delle cose comuni di qualità (un repertorio però di difficile individuazione) comporta un esercizio critico di qualche interesse, nel senso che potrebbe, alla lunga, ricollegare direttamente l’oggetto con il gesto del celebrante, secondo una immediatezza più diretta e quindi più espressiva.
Se si togliesse all’oggetto d’arte sacra quel tanto di fittizio che su questo è venuto addensandosi ed incrostandosi nel tempo, il calice sarebbe di nuovo il più bel bicchiere, non quello strano oggetto d’oro, argento, gemme, quasi coppa barbarica, che ci ha lasciato la tradizione; l’altare sarebbe un tavolo che richiama l’antica mensa; le sedi sarebbero posti per sedersi e non troni di Attila; l’ambone sarebbe un leggìo come quello che userebbe un musicista, un cantante, e non un rostro mussoliniano. Tutto un repertorio formalmente appariscente e pretenzioso potrebbe cadere per essere rimpiazzato da un nuovo repertorio attraverso il quale la vita comune possa entrare nella vita liturgica, senza fasti, trionfalismi, stilismi allegorici. È certo che una piccola bottiglia anche bellissima, non è una ampolla di Murano, che un bicchiere di vetro o di terracotta smaltata, non è il calice dorato al quale siamo abituati. Gli stessi servizi dell’altare diverrebbero simili ai servizi di una comune mensa: durante le concelebrazioni verrebbero impiegati calici uguali fra di loro: non scompagnati, di ogni foggia e misura, disposti, come oggi troppo spesso succede, su di una mensa apparecchiata con una accozzaglia di elementi raccogliticci . Anche anticamente i vasi sacri erano tutti pensati e prodotti come elementi unitari, formanti un solo insieme omogeneo, quali “servizi” completi e coerenti: oggi occorre tenere presente che la concelebrazione è diffusa, specie in occasioni solenni.
Oltre a ciò, un atteggiamento di scelta, meditata e accorta, fra repertori di uso domestico, servirebbe a negare, nell’uso liturgico, un concetto di arte che “sacra” non è e non dovrebbe essere, in base al Nuovo Testamento. Seguire questa linea di qualità, semplicità, chiarezza, significherebbe anche radicare il Concilio in luoghi e occasioni liturgicamente significativi. Sarebbe espressione di quell’elogio della quotidianità che Frédéric Debuyst riprendeva in un saggio. Egli osservava che, d’istinto, tutto, o quasi tutto quello che riguarda la vita quotidiana, sembri in fondo banale e triste, mentre invece l’arte ha ritrovato nella quotidianità un nuovo campo per sperimentare l’espressione di valori autentici. Il mistero dell’esistenza quotidiana si manifesta nella liturgia in una luce differita e sublimata, una sorta di nuova memoria, più bella e soprattutto tangibile.

 

Prof. Arch. Roberto Gabetti
Docente di Composizione Architettonica, Politecnico di Torino
Incensiere in ferro e rame Patena e calice in cristallo scolpito semitrasparente

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