Riflessioni di un progettista

Le norme e l’impegno professionale

…Un dovere collettivo, in cui il contributo di ciascuno è peculiare, indelegabile e, soprattutto, autentico: questa la strada per avvicinarsi alla verità progettuale.

Prof. Arch. Mario Roggero, Politecnico di Torino,
Dipartimento di Progettazione

Si possono ben comprendere le preoccupazioni dei Vescovi italiani nello stilare le recenti Note su “la progettazione
di nuove chiese” e su “l’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica”; così come molto opportune appaiono, nel loro insieme, laconico ma essenziale, le osservazioni di un teologo quale p. Giacomo Grasso che tende, col suo “Commento”, a richiamare l’attenzione del “versante ecclesiastico” degli interlocutori direttamente coinvolti nel confronto. Non so valutare invece la misura dell’interesse suscitato da osservazioni di un laico, architetto, sul
“versante professionale” della questione, né quale incidenza queste possano assumere sulla risoluzione dei problemi evidenziati. E ciò non tanto per l’assenza di documenti ufficiali di indole storico-critica (che pure, a cercarli con cura, si trovano, eccome!) o per l’insufficiente compentenza (autentica invece questa!) di chi – come me – senza essere né vescovo, né teologo, ma con mezzo secolo di progettualità alle spalle, cammina ancora fra dubbi ed incertezze, nel timore di pericolose scorciatoie o di ancor più pericolose ricette ritenute risolutive per i problemi emergenti, piuttosto per l’intrinseca difficoltà specifica dei singoli casi che vanno affrontati, e per i quali nessuna forma di categorizzazione tipologica è in grado di offrire, nella globalità, modelli o esempi emblematici di riferimento sicuro. Si cammina sulla lama di un coltello, pericolosamente e “senza rete”, con il rischio sempre incombente di sbagliare e… di rovinare irrimediabilmente il monumento. Per farmi allora coraggio, vorrei prendere le mosse dal fiducioso messaggio dei Padri Conciliari, inviato l’8 dicembre 1965 a conclusione dei loro lavori, agli“uomini di pensiero e di scienza”: «Notre effort pendant ces quatre ans, qu’a-t-il été, sinon une recherche plus attentive et un approfondissement du message de
vérité confié à l’Eglise, sinon un effort de docilité plus parfaite à l’Esprit de vérité? Pour vous nous avons donc un message: continuez à chercher, sanz vous lasser, sans désespérer jamais de la vérité. Rappelez vous la parole d’un de vos grands Amis, Saint Augustin: ‘cherchons avec le désir de trouver et trouvons avec le désir de chercher encore’ ».
La ricerca deve farsi ancora più attenta e l’approfondimento più docile, nella continuità dello sforzo e nel desiderio sconfinato di trovare ciò che si cerca per continuare, tappa dopo tappa, a cercare senza sosta quanto non è ancora stato trovato appieno. La soluzione al problema progettuale (perché adeguare un edificio a nuove funzioni – lo ripetono
anche le Note – è sempre un autentico progettare) non si conclude nelle norme; e nelle norme, da sole, non si trova; non nelle leggi, nei regolamenti, nelle prescrizioni. Queste rappresentano i vincoli, le costrizioni, i limiti; una volta liberatici dai quali, troppo spesso ci si illude di potere, in totale autonomia, dare forma al proprio arbitrio; oppure, accettandoli, più o meno supinamente quale definizione del campo d’indagine, si ritiene di non aver altre remore in grado d’intaccare la nostra sicurezza. Non si da (lo so per antica e comune esperienza), lungo l’intero processo progettuale, un solo momento in cui si possa “andare a ruota libera” inseguendo l’immagine di un sogno appagato.
L’impegno è continuo; l’impegnoè totale: senza pause, senza concessioni a compromessi o a deleghe. Soccorre ancora, in questo caso, p. Grasso quando afferma:«Per realizzare un edificio così impegnativo com’è una chiesa, occorre che il teologo pensi, che la committenza pensi, che l’architetto pensi». E dunque corale, l’impegno a pensare prima di operare.
E un dovere collettivo, una responsabilità collettiva, in cui il contributo di ciascuno è peculiare, specifico, indelegabile e
soprattutto, autentico: permeato cioè di quella autenticità senza cedimenti che – asintoticamente – ci conduce alla Verità: e in cui tuttavia quanto di collettivo, di comunitario, di consentaneo emerge in conclusione è il frutto preciso di una chiarezza di idee individuale, espressa con franca lealtà; confrontata, senza timori ma senza prevaricazioni, con
quelle degli altri; una volta che insieme, siano stati chiariti ed accettati gli obbiettivi finali venuti dai diversi (e autentici)
contributi interdisciplinari. Pensare, dunque, senza precipitazione (la quale non avvicinerebbe d’un passo la soluzione corretta) e senza impazienza nei confronti di chi, parlando un altro linguaggio e forse anche un gergo un po’ ostico, sembra rallentare il processo di interscambio e, quindi, di piena comprensione reciproca. Ripercorrere un cammino già fatto per mostrarlo anche agli altri induce a una maggiore chiarezza nella definizione, a una più convinta asserzione delle ragioni che hanno dettate le nostre scelte, alla assunzione di un indispensabile vocabolario comune. E il modo più sereno e più sicuro per uscire dai dubbi panici che ci derivano da insicurezza, dalla paura di sbagliare; per concentrarci
a risolvere quelli che invece sono (naturalmente, direi) embricati nella realtà più propria del problema. Una siffatta condizione critica, che in mezzo secolo di attività progettuale ho vissuto intensamente e altrettanto intensamente
ho visto vivere da tantissimi colleghi assai più bravi di me, è la riprova che nessun progetto nasce nella libertà dai vincoli, dalle contraddizioni ulteriori: semmai è proprio da questi che viene stimolato di continuo; costretto ad assumere “quella” specifica conformazione che lo rende autentico ed unico. E solo per tale via che, come scriveva Le Corbusier a p. Couturier o.p., «on accouche sur le papier». L’adeguamento, secondo il vocabolario, «sancisce un rapporto di parità o di proporzionalità fra istanze o realtà aventi finalità differenziate».1 Ora la differenziazione tra le finalità, nel caso
che stiamo esaminando, dovrebbe rimanere fondamentalmente teorica, in quanto l’unica realtà progettuale che ne forma l’oggetto, deve rispondere alle istanze di entrambi gli obbiettivi: piena rispondenza alla funzionalità liturgica dell’edificio per il culto e rispetto altrettanto pieno dei valori storico-artistici che il monumento esprime. In pratica, le frequenti discrepanze, i contrasti, le divergenze di valutazione nelle scelte e nei mezzi per realizzarle derivano invece, per lo più, dai differenti valori attribuiti, e dalle parti differentemente interessate, ai rapporti di parità o di proporzionalità tra i fattori in gioco. È un fenomeno, questo, che spesso vede coinvolto il progettista, il quale, con i limitati poteri
decisionali che in pratica gli vengono lasciati (o, talora per insufficiente coscienza professionale), deve comporre le imposizioni di una committenza o di un organo di controllo, tanto più radicali nelle proprie esigenze quanto meno sono documentate sull’autentica delicatezza e consistenza del problema. Per tali motivi, su una tale situazione – benché questa non possa in alcun modo formare oggetto di normativa rigorosa, in quanto legata più ai caratteri personali dei soggetti a confronto che non alla effettiva realtà della questione – si sarebbe forse desiderato che la Nota della C.E.I.
prendesse più esplicitamente una posizione chiara ed inequivocabile, in termini giuridicamente ineccepibili e – soprattutto – senza affidarsi ad esortazioni ed auspici che restano il più avanzato strumento per il compromesso, sempre poco responsabile e del tutto insoddisfacente. Si sa bene quanto un simile atteggiamento sia difficile da
assumere e quante difficoltà aggiuntive induca nei rapporti interistituzionali, particolarmente in quelli collettivi, già così discordi al proprio interno. Parrebbe una via senza uscita: invece, a mio parere, almeno una ne esiste; anche se difficile da imboccare senza le opportune cautele e senza una grande sensibilità professionale da parte del progettista. Poiché sta fondamentalmente nelle sue mani applicare quanto anche nella Nota viene (ma, a mio avviso, un po’ troppo morbidamente) consigliato. Tanto più la normativa rimane morbida e possibilistica, tanto più si farà duro il contrasto operativo. L’ostacolo fondamentale consiste nella difficoltà di comunicare (non tanto per la chiarificazione delle istanze di ognuna delle parti, quanto per l’approfondimento reciproco delle motivazioni su cui tali istanze si fondano), quando ad espressioni di un linguaggio curiale, non sempre inteso appieno nello stesso ambiente clericale, vengano contrapponendosi locuzioni apodittiche derivanti da Leggi e regolamenti spesso non motivate con sufficiente chiarezza e nello spirito di una autentica collaborazione. La difficile azione maieutica, che tenda alla fusione o, almeno, all’avvicinamento delle due intenzioni non collimanti, spetta al progettista che, se si è correttamente avvicinato al tema dell’edificio cultuale, lo deve aver fatto per libera scelta e consentanea predisposizione al dialogo; e quindi deve essere necessariamente al corrente (o almeno affrettarsi a farlo coscienziosamente) anche di talune espressioni “gergali” del linguaggio clericale; mentre è, per consuetudine professionale, allenato alle esigenze degli organi tutori e al linguaggio
storico-critico che da essi viene abitualmente impiegato. È dunque suo preciso e ineludibile dovere professionale rendersi interprete fedele per entrambi i linguaggi che non hanno frequenti occasioni di venire a contatto: direi che deve assumere, a pieno titolo e con totale dedizione, il compito di stimolatore, di catalizzatore culturale fra due tipi di cultura non sempre necessariamente omogenee. E qui non sono in pieno accordo con p. Grasso, quando fa entrare nel gioco, non facile e sempre diverso, progettisti “magari giovani, disponibili a compiere ricerche, a informarsi”. Non si tratta di essere disponibili: è necessario che tale compito venga svolto con massima serietà, impegno e competenza, qualunque
sia l’età di chi lo svolge. I casi più complessi e delicatidi adeguamento si verificanosempre là dove più alta è l’importanza
del monumento: è quindinecessario che il progettista possieda, acquisite e verificate (concura), nel suo bagaglio culturale, precise competenze teoretico-operative anche nel campo del restauro per essere in condizione diproporsi,
da pari a pari, con ricchezza di sperimentazione eprofondità dottrinale, quale interlocutore legittimo e autorevole.
Il concetto chiave che può (e deve) condurre, in modo criticamente corretto ed operativamente efficace, alla composizione dei contrasti che si determinano in argomento – concetto di cui ogni progettista attento è consapevole
– può essere individuato nella cosiddetta teoria della “conservazione integrata”: conservazione rigorosa del monumento nell’integrità dei suoi valori propri; «integrata nel processo produttivo della vita associata, riconoscendola come una finalità cui una società civile deve tendere legittimamente, così cornee per la giustizia o la sanità»2. Il raggiungimento di un tale scopo, per altro assai complesso, può avvenire soltanto se inserito nella strategia globale di una politica nazionale «quale uno degli elementi fondamentali della pianificazione urbanistica ed economica ». E poiché, sia come edificio cultuale,
sia come monumento, l’oggetto della nostra riflessione si manifesta come «un bene economico di tipo particolare, capace di dispiegare per gli uomini utilità anche di tipo spirituale», l’obbiettivo finale deve essere inteso,
sotto ogni aspetto, diretto «al vantaggio dell’uomo, per migliorare la qualità della vita, per assicurare la continuità culturale con la tradizione». Non vi è dunque (né vi può essere) nel nostro caso opposizione di finalità, contrasto ideologico ma soltanto differente valutazione circa la priorità dei valori in gioco o la proporzionalità nella loro incidenza sul risultato finale (non voglio, per carità, ipotizzare in alcun modo conflitti d’interessi, che suonerebbero a condanna per entrambe le posizioni). Si tratta dunque di imparare a tenere in giusto conto le motivazioni altrui nel prospettare le proprie scelte: secondo rigorose misure tanto critiche quanto liturgiche. Approfondire la ricerca per trovare la linea di convergenza è compito del progettista e di chi lo coadiuva sul piano interdisciplinare: ad essi compete poi altresì di rendere evidente una tale linea, suffragandone la scelta con motivazioni autentiche e quindi convincenti. «I nodi possono essere sciolti – commenta p. Grasso – anche in punti non sempre facili». E il percorso che addita mi pare
convincente. «La Nota propone un progetto globale» in linea di «fedeltà al Concilio»: ma «queste cose non interessano solo i ‘cattolici’ praticanti, ma interessano tutti«. E «ora ci si può muovere avendo alle spalle molti studi e l’amarezza di errori compiuti. Però ci si può muovere; e la Nota è magnifico strumento di lavoro: strumento oltremodo esigente anche con i progettisti». Questo, dal nostro punto di vista di architetti, mi sembra l’aspetto più importante e che più mi preme mettere in luce, perché annulla tutti i nostri falsi alibi ed impone precisi, inderogabili impegni: assunzione rigorosa di responsabilità, da condurre, se necessario, fino alla rinuncia all’incarico; approfondimento delle problematiche nella certezza che esistono soluzioni autentiche anche per i nodi più complessi; ricerca di tutte le soluzioni alternative possibili, fino a che non sia individuata quella globalmente ottimale. Queste riflessioni mi riportano alle parole di Paolo VI, che amo ripetere ogni volta che posso: «II momento creativo ha bisogno di una catechesi e di un laboratorio e – voi ce lo dite – di un tirocinio duro, ascetico, lento, graduale. Ma aggiungeremo che non basta né la catechesi, né il laboratorio. Occorre l’indispensabile caratteristica del momento religioso, e cioè la sincerità»3. È dunque soltanto rendendoci conto che quello dell’architetto, quando sia fatto come deve essere fatto, è un lavoro faticoso, amaro, senza soste né cali di tensione (altro che «Il Tormento e l’Estasi»); quello che ognuno di noi vorrebbe tanto realizzare, esige
ancora una lunga, accidentata strada da percorrere prima di essere legittimati a fare nostro il terribile grido di Pierre de Crahon (nell’«Annonce fait à Marie» di Paul Claudel) il quale, dopo aver perso fortuna e amore umano, divenuto lebbroso, può esclamare nel realizzare la “sua” chiesa: » Dieu m’à prive de tout pour me renare le suscitateur de ses
cathédrales». Al confronto, trovare una composizione tra la Carta di Venezia sul restauro e la Nota della C.E.I. sull’adeguamento non sembra più un compito impossibile: gli strumenti ci sono tutti e sono di larga potenzialità. Occorre soltanto sforzarci per poterli usare, ciascuno di noi, con la necessaria competenza, senza deleghe a nessuno; ma con un briciolo almeno di autentica umiltà.

Note
1: Devoto e G.C. Olmi, Dizionario della lingua italiana, voce Adeguamento, Le Monnier, Firenze, 1977.
2: Indagine conoscitiva sui beni culturali, Camera dei deputati, Commissione VII, Audizione del Presidente del Consiglio Internazionale dei Monumenti e Siti, ICOMOS, prof. R. Di Stefano, seduta di martedì 14 marzo 1989.
3: S.S. Paolo VI, Messaggio agli artisti cfr Obbedire alla Grazia di M.F.R. in CHIESA OGGI, n. 10,1994.

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