Progettare nelle periferie

Progettare nelle periferie ha come sfondo la tensione ad uscire dal concetto di città dormitorio per favorire uno sviluppo del tessuto sociale ideando edifici che promuovono la vita dei cittadini in un contesto di comunità. «Il quartiere, infatti, non può essere soltanto un agglomerato di costruzioni: ha da essere la base di una convivenza umana, che non può fare a meno di creare rapporti sociali. » (Giacomo Lercaro, 1958, Cit.) Lo sforzo progettuale è dunque rivolto a favorire l’incontro e lo scambio tra le persone, superando la propensione all’individualismo ed alla solitudine che è maggiormente percepita nelle periferie a prescindere dal livello sociale delle persone che le abitano. «Ma questo senso di comunità, vivo ed operante, postula un’anima religiosa. Ho visto quartieri profondamente divisi, perché formati, ad esempio, da agglomerati per profughi giuliani, da un villaggio per gli sfrattati e da case per ex militari… Nessun affiatamento, nessuna unità: seppure non v’era la diffidenza reciproca…; nessun centro che valesse ad adunarli e li unisse: alla festa, lunghe file in attesa dell’autobus per raggiungere il centro cittadino e disperdersi nei cinema o per le strade infittite di gente ignota.» (Giacomo Lercaro, 1958, Cit.) Le chiese possono essere elementi architettonici in grado di comunicare riconoscibilità e carattere, capaci di generare socialità accogliendo liberamente le persone nei propri spazi e tra le proprie mura. Gli stessi “muri” che storicamente circondavano le città per delimitarne il confine e definire il limite tra ciò che era dentro e ciò che era fuori, sono ancora oggi un elemento a cui rapportarsi perché mantengono il loro significato ideologico.

Nell’esperienza maturata nella progettazione di chiese di periferia, si è potuta approfondire l’antitesi propria del concetto di muro quale elemento separante e al contempo capace di generare spazi integrati con il contesto e ancor più in grado di integrare le persone in senso sociale. La chiesa di San Lorenzo a Bologna, realizzata in elementi prefabbricati per la temporaneità ed economia richiesta all’interno del programma delle chiese Lercariane, è stata voluta senza recinzioni e barriere, in continuità nel tessuto abitato, così che il terreno di proprietà si sfrangia verso i percorsi pubblici che la lambiscono. L’edificio è stato percepito dagli abitanti della zona come uno dei centri delle dinamiche sociali, tanto che da chiesa provvisoria è stata trasformata in edificio definitivo con la costruzione di nuovi elementi quali l’abside, il battistero con funzione di torre campanaria e gli arredi liturgici permanenti, rinunciando ad eseguire una nuova costruzione che sarebbe probabilmente apparsa come oggetto isolato e contrapposto al tessuto urbano. La chiesa realizzata presso il Carcere di Bologna è stata proposta con forme curve che giocano in contrapposizione al tradizionale reticolo di muri simbolo della rigidità del sistema e forse anche della forzata esclusione dei detenuti dalla società: con lungimiranza i direttori del penitenziario hanno favorevolmente accolto la possibilità di attuare il concetto di sicurezza e sorveglianza dei detenuti all’interno della cappella, superando il muro quale elemento separante. Si sono dunque progettati ambienti che hanno permesso la concomitante presenza nella cappella dei detenuti, del personale sorvegliante e dei volontari, superando la rigidità propria del luogo. La realizzazione delle chiese “nelle periferie”, in tutte le connotazioni attribuibili a tale termine, è dunque principalmente un tema di ricucitura sociale, ribaltando di fatto il rapporto tra dentro e fuori attribuito al costruito e creando quegli spazi capaci di essere percepiti come nuovi centri di condivisione e socializzazione.  

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