NORMA E PROGETTO DELLE CHIESE

Qualcuno dichiara in modo quasi provocatorio “La Chiesa ha le chiese che si merita”, per dire che progettare e costruire una nuova chiesa non può significare creare ogni volta ex novo una nuova idea di Chiesa.
Per questo, da più parti si avverte oggi l’impellente necessità che la Chiesa stessa  ormuli e prescriva canoni delle forme architettoniche ai quali attenersi nella realizzazione di una chiesa, al pari di come dai tempi più antichi essa ha formulato i canoni della sua fede. Si è soliti evidenziare, a giusto titolo, come “l’edificio di culto cristiano corrisponde alla comprensione che la Chiesa, popolo di Dio, ha di se stessa” (La progettazione di nuove chiese, 1), ma occorre anche ricordare la relazione che sta all’origine di questa, ossia la corrispondenza tra l’edificio di culto cristiano e la fede cristiana. Nell’architettura liturgica non vi è in gioco, dunque, solo l’autocomprensione che la Chiesa ha di se stessa, ma anche la confessione che la Chiesa fa della sua fede. Lo spazio liturgico, infatti, deve essere coerente con la fede che in esso è celebrata. Di questa fede lo spazio liturgico è una delle più alte espressioni, perché è la fede ad averlo generato.
Le chiese sono, in una certa misura, la fede fattasi spazio, superfici, forme e dimensioni. La fede ha sempre avuto un luogo, perché la fede “dà luogo” e “si fa spazio”. Per questo, una chiesa rende visibile la fede dei credenti che l’hanno voluta, l’hanno realizzata e la abitano come casa di preghiera. La qualificata e approfondita normativa ecclesiastica vigente circa la realizzazione di nuove chiese, sebbene arrivi a stabilire in modo pertinente la natura, i significati, le funzioni e le finalità di tutti quegli elementi che insieme concorrono a creare e formare gli spazi liturgici, tuttavia non è ancora giunta a determinare veri e propri canoni delle forme architettoniche ai quali attenersi nella realizzazione di una chiesa. Canoni delle forme architettoniche non rigidi e inflessibili da riprodurre meccanicamente in ogni situazione; canoni tuttavia rigorosi, diversamente declinabili a seconda dei contesti ecclesiali, culturali, urbanistici, geografici, ecc. Ma soprattutto canoni interpretabili e per questo capaci di ispirare una fedeltà creativa che, come la storia dell’architettura e dell’arte cristiana attestano, è certo l’esito di talento e genialità ma anche di regole da osservare e significati ai quali fare obbedienza. In definitiva, canoni analoghi a quelli ai quali si attenevano gli antichi e moderni costruttori di chiese e ai quali, con forme proprie e diverse da quelle latine, si attengono ancora oggi coloro che costruiscono chiese di rito orientale, anche in paesi europei.La creazione di un ethos dell’architettura liturgica espressa attraverso canoni o stilemi stabiliti si presenta oggi come una vera e propria sfida culturale e per questo si fa oltremodo impellente e necessaria. Nello spazio di un articolo è permesso mettere a fuoco, in forma esemplificativa, un solo elemento che i canoni delle forme architettoniche devono statuire nella realizzazione di una chiesa, ossia l’assoluta tipicità dello spazio retrostante l’altare. Nel succedersi lungo i secoli degli stili dell’architettura liturgica, lo spazio situato dietro l’altare è sempre stato oggetto di grande attenzione in ragione del suo significato particolare. Esso è stato inteso come spazio gratuito, non funzionale, suggestivamente definito da P. Frédèric Debuyst “espace de gloire”. La qualità unica e singolare dello spazio situato dietro l’altare ha trovato nell’abside la sua espressione più alta ed eloquente, di volta in volta tradotta in forme architettoniche diverse ma tutte unanimemente consapevoli del suo significato e della sua importanza. Se l’altare, tavola eucaristica, rappresenta il centro teologico dello spazio liturgico, è decisivo osservare che l’eucaristia non è solo memoriale delle azioni storiche compiute da Dio nel passato, ma è anche memoriale del futuro. Nell’eucaristia non si fa anamnesi solo dell’incarnazione di Cristo, della sua morte e risurrezione e della sua ascensione, ma anche anamnesi della sua venuta nella gloria. La liturgia è anche memoriale di ciò che deve ancora avvenire, la parusia di Cristo alla fine dei tempi. Lo spazio retrostante l’altare è, per così dire, l’estensione del mistero che su di esso è celebrato, così che l’abside è l’invocazione e l’attesa cristiana che si fa spazio creando uno spazio proprio. L’abside è dilatazione dell’altare, è anamnesi spaziale dell’attesa. Come i battisteri sono la forma spaziale “creata” dalla parola del Risorto “andate e fate discepoli tutti i popoli battezzandoli” (Mt 28,19), allo stesso tempo l’abside traduce nello spazio l’ultimo versetto della Bibbia, che è al tempo stesso la parola di Cristo: “Sì, vengo presto! Amen” e insieme l’invocazione della Chiesa: “Vieni Signore Gesù” (Ap 22,20). L’abside è la parte più avanzata e protesa della chiesa perché è la Chiesa che va oltre se stessa e si sporge verso lo Sposo atteso. Questo rivela come sia nefasta l’idea di porre l’altare al centro dell’assemblea. La storia antica, medioevale e moderna dell’architettura liturgica attesta invece che anche nelle chiese a pianta centrale l’altare non veniva posto al centro ma sul fondo, spesso inserito all’interno di un’abside. Ci basti qui ricordare Santa Sofia di Costantinopoli e la descrizione dello spazio liturgico e delle solenni celebrazioni narrate da Paolo il Silenziario. L’altare posto al centro di uno spazio circolare attorno al  quale si dispongono i fedeli in modo cosiddetto “avvolgente”, compromette a un tempo la natura dell’azione liturgica che vi si celebra, il significato dell’immagine di Chiesa che in essa deve essere rappresentato e infine, ma non per ultimo, il significato simbolico dell’altare stesso. L’altare, infatti, è chiamato a rappresentare il punto maggiore di convergenza delle linee di forza dell’edificio, dell’azione liturgica e dell’assemblea riunita, ma al tempo stesso, come si è detto, esso deve rinviare oltre sé per indicare il compimento atteso. Pertanto, l’altare è il punto di convergenza ma non il termine ultimo, rappresenta il centro della chiesa non perché collocato nel suo centro spaziale ma perché ne è il centro liturgico e simbolico. Da qui la necessità di istituire un canone che stabilisca uno spazio retrostante l’altare in grado di rappresentare la costitutiva dimensione escatologica della fede cristiana e della sua liturgia. Costruire una nuova chiesa senza abside significa non fare spazio all’attesa e all’invocazione del Veniente. Si dovrebbe riflettere circa il venir meno della tensione escatologica nell’esperienza credente contemporanea e l’irrilevanza che nelle chiese contemporanee è dato allo spazio situato dietro l’altare. Spazio spesso rappresentato dalla semplice parete perimetrale sulla quale applicare immagini o segni. Campane Trebino
Una scelta di qualitàBisogna ancora ricordare le testimonianze che l’intera storia dell’architettura liturgica attestano circa l’intima relazione tra l’abside e la luce naturale. Attraverso le monofore dell’abside la luce penetra all’interno della chiesa, creando una figura simbolica di grande efficacia. La luce naturale esercita così un vero e proprio ufficium nei confronti, sia dello spazio, sia della liturgia. Come non riconoscere che la luce filtrata da una monofora è sacramentum? Affermare che nei canoni delle forme architettoniche l’abside dovrebbe essere indicato come un elemento costitutivo e irrinunciabile di una chiesa, non significa riproporre alla lettera le forme antiche dall’abside, quanto piuttosto non consegnare alla completa irrilevanza ma garantire la qualità simbolica ed espressiva dello spazio liturgico retrostante l’altare.
Un esempio molto eloquente della possibile rilettura della tradizionale abside è quanto realizzato nella ben nota chiesa di Santa Maria a Marco de Canavezes dall’architetto portoghese Álvaro Siza Vieira: la vera e propria abside visibile
all’esterno nella facciata nord-est, all’interno della chiesa si presenta come lo spazio dischiuso da due ampie aperture rettangolari ricavate nella parete dietro l’altare, autentiche monofore che consentono alla luce zenitale di accedere all’aula. Infine, l’esigenza che la Chiesa formuli e prescriva canoni delle forme architettoniche ai quali attenersi nella realizzazione di una chiesa, risponde anche alla necessità di coadiuvare, e al tempo stesso definire e  circoscrivere, il ruolo svolto dall’architetto nella realizzazione di una chiesa. Vi sono casi anche recenti nei quali alcune comunità hanno da se stesse ideato la loro chiesa, ricorrendo solo in un secondo tempo all’architetto perché traducesse in linguaggio architettonico e tecnico quanto esse avevano concepito, dando così vita a un’efficace sinergia tra l’elaborazione della comunità e l’apporto specifico dell’architetto. In una sua conferenza del 2001, ancora inedita, Giancarlo De Carlo osservava: “Gli architetti sono diventati dei ‘personaggi’ della specializzazione. Alcuni di loro hanno prodotto opere straordinarie; certi però hanno creduto che fosse loro esclusivo appannaggio dare forma e organizzazione allo spazio fisico e hanno deliberatamente espulso gli altri… Ora io ho sempre pensato che uno dei compiti fondamentali dell’architetto – per quanto possa apparire paradossale – sia di fare in modo che, al più presto possibile, gli architetti non siano più necessari, nel senso che tutti ridiventino architetti.” La prima che è chiamata a ridiventare architetto è la Chiesa stessa. Occorre riconoscere che anche le più affascinanti intuizioni che hanno ispirato la realizzazione di alcune tra le più riuscite chiese contemporanee, se avessero dovuto misurarsi e attenersi a canoni delle forme architettoniche fermamente posti dalla committenza ecclesiale, avrebbero certamente portato a una maggiore fedeltà al proprium della liturgia e della fede cristiana. Costruire una nuova chiesa non può significare creare ogni volta ex novo una nuova idea di Chiesa e una nuova visibilità della fede. La ricorrenza del quarto centenario della canonizzazione di S. Carlo Borromeo deve invitarci a riflettere sull’utilità e l’efficacia che hanno avuto nella storia del cattolicesimo le Instructiones Fabricae che il vescovo ambrosiano promulgò nel 1575.

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