Massimo Pica Ciamarra


1. Dipinti, bassorilievi e sculture un tempo erano parte integrante dell’architettura. Gli spazi delle chiese e dei grandi palazzi erano animati da affreschi ideati indissolubilmente per loro; le sculture articolavano facciate, raccordavano al cielo le costruzioni, integravano gli spazi esterni del costruito. Quando queste integrazioni – spontanee, quasi naturali (sono nelle architetture rupestri, nella civiltà micenea ed in quella egiziana, nei templi greci e nell’architettura romana, nella cultura cinese, indiana ed atzeca) – danno segni di stanchezza, cioè quando riduzionismi, semplificazione del gusto e banalizzazioni del costruire prendono il sopravvento, in Italia si immaginò di poter sostenere ‘per legge’ l’arte negli edifici. Nacque così la legge ‘del 2%’ – voluta da Giuseppe Bottai, Ministro dell’Educazione Nazionale dal 1936 – scaturita dal dibattito che coinvolse Argan, Gadda, Longanesi, Montale, Quasimodo, Ungaretti ed altri protagonisti della cultura italiana: per legge il 2% della spesa di ogni costruzione doveva riguardare ‘opere artistiche’.
Tre Gazzette Ufficiali in sequenza – 1942/1949/1960 – documentano la vicenda di questa norma negli anni centrali del secolo scorso: le immagini correlate (in una litografia numerata avuta trent’anni fa non ricordo da chi e della quale non riesco più a decodificare le tre firme) richiamano le ben diverse realtà di quei periodi della nostra storia. Ancora nel 1997 la Legge 352 – ‘Disposizioni sui beni culturali’ – disquisisce sulle commissioni giudicatrici; poi – luglio 1999 – il Disegno di Legge sull’architettura rinverdisce questa norma desueta, demagogicamente riaffermata anche nella Legge sull’Architettura recentemente approvata. Non oso pensare a quali immagini contemporanee i miei donatori avrebbero affiancato a queste Gazzette. Una constatazione però è certa: quando le opere d’arte entrano ‘per legge’ negli edifici, perdono la capacità di integrarsi. Non più componenti essenziali del messaggio o della testimonianza che l’edificio sostiene, tendono a ridursi ad accessori che sembrano avvalorare Sir Gilbert Scott e la sua assurda definizione di architettura come ‘ornamento della costruzione’. Eclatante il caso delle stazioni della Metropolitana di Napoli: benché qui le opere d’arte travalichino ampiamente la quota del 2%, benché introdotte con finalità di ampio respiro, anche qui sembrano giustapposte, ‘abbelliscono’, appartengono ad un’idea forte, ma mostrano indifferenza agli spazi dove sono immesse. Per 70 anni quindi si è sviluppata in Italia una rincorsa legislativa ancorata ad una visione dell’architettura anacronistica, estranea alla condizione contemporanea.

Illustrazione da Fletcher, Sir Bannister,
A history of architecture
Pica Ciamarra Associati, Intrecci di architetture

Finché le città si andavano formando attraverso processi ormai obsoleti, poteva anche essere concepibile che i singoli edifici vivessero delle loro figure e che i loro stilemi potessero assumere valore essenziale. Però non è stato sempre così. Le città sono nate come luoghi di difesa – prima di tutto dalla natura – luoghi di scambio, di aggregazione, di identità. Gli spazi delle città venivano definiti per avere senso, cioè per rappresentare e consentire riti. Da sempre il senso più profondo del costruire è insito nelle relazioni fra le parti, anche se storia dell’architettura, codici e manualistica hanno focalizzato l’attenzione sulle qualità espressive dei componenti costruttivi. Di tutt’altro segno è l’analisi storica delineata da Reyner Banham in The Architecture of the Well-Tempered Environment o quella di Bruno Zevi, specie nelle
straordinarie letture dei 20 monumenti + 20 complessi edilizi + 20 spazi aperti. Oggi – in insiemi dove caos, contraddizioni, diversità e complessità sono fattori positivi – dimensioni e velocità evolutiva hanno reso evidente che architettura è anche – soprattutto – paesaggio, infrastrutture, urbanistica; che la qualità delle trasformazioni va cercata nel dialogo fra frammenti, fra edifici e contesti; che prevale l’interesse per l’armatura formale degli interventi, mentre i linguaggi dell’architettura fanno i conti con il design dei componenti di produzione industriale. Oggi non ha senso alcuno ‘aggiungere’ opere d’arte all’architettura: l’espressione architettonica risiede anzitutto nelle relazioni immateriali
con i contesti; il senso di un intervento è molto al di là del suo linguaggio o di protesi singolarmente espressive.
Di qui la relativa indipendenza fra ‘armatura della forma’e ‘linguaggi espressivi’;la profonda distinzione fra ‘materiali della costruzione’e ‘materiali dell’architettura’;l’architettura intesa come ‘costruire secondo principi’ ed estesa all’insieme dei processi di trasformazione dell’ambiente di vita. Di straordinaria chiarezza l’affermazione di Giancarlo De Carlo: Credo nell’eteronomia dell’architettura, nella sua necessaria dipendenza dalle circostanze che la producono, nel suo intrinseco
bisogno di essere in sintonia con la storia, con le vicende e le aspettative degli individui e dei gruppi sociali, coi ritmi arcani della natura. Nego che lo scopo dell’architettura sia di produrre oggetti e sostengo che il suo compito fondamentale sia di accendere processi di trasformazione dell’ambiente fisico, capaci di contribuire al miglioramento
della condizione umana.
Che necessità ha la nuova Fiera di Milano di opere d’arte? Il Museo della cultura ebraica a Berlino non era decisamente più interessante quando era privo dei suoi allestimenti? Il Guggenheim di Bilbao è nato per accogliere espressioni d’arte contemporanea, ma l’interesse che suscita non è per quanto contiene: c’è chi lo apprezza per l’inconsueto linguaggio espressivo o chi come me è maggiormente attratto dal formidabile intreccio con le infrastrutture ed il contesto in cui si è
immerso. Un qualsiasi ponte di Maillart o di Calatrava non è di per sé assimilabile ad una gigantesca scultura? Nessuno di questi ponti accetterebbe sequenze di statue come quelle che stabiliscono spazialità e senso del Ponte di Castel Sant’Angelo a Roma. Per quasi apodittica definizione, l’architettura non cerca – spesso non tollera – né aggiunzioni né decorazioni.

2. Questo non vuol dire che qualsiasi architettura – qualsiasi formazione o trasformazione dell’ambiente – non possa o non debba nascere dal pensiero integrato di partnership complesse – formate da esperti provenienti da settori disciplinari diversi ma capaci di ‘in-disciplina’ – cioè liberi da ottiche settoriali, aperti alla molteplicità dei punti di vista:
partnership di cui siano parte anche ‘artisti’, cioè persone tese a suscitare emozioni soprattutto attraverso elementi privi di funzioni codificate o conosciute.
Sentivo tempo fa Joseph Rickwert distinguere ‘teoria’ – testimonianza di esperienze, strutturazione di idee e pensieri scaturiti dal fare – da analisi critica ed argomentazione filosofica. Sviluppo allora un ragionamento teorico limitato, ma fondato su esperienze dirette. Sin dalla fase di concezione di alcuni progetti ho avuto occasione di dialogare con artisti che non esaurivano il loro contributo nell’autonomia espressiva di un qualcosa bene o meglio collocato nello spazio. Il progetto è il prodotto di partnership animate da contrasti ma anche da un simultaneo comune sentire: interazioni, non azioni a cascata.
Umberto Mastroianni utilizzò alcune sue ‘esplosioni’ nel progetto per il Parco nel centro storico di Reggio Emilia. Con Gianni Alfano nacque il tema spaziale che anima l’interno della casa DG a Massalubrense. Renato Barisani disegnò il ‘muro’ su cui si fondava la proposta di ridisegno della Lutzowplatz a Berlino. Anche i giochi plastici della fontana dell’Istituto Motori del CNR – le articolate appresature di mattoni su piani sovrapposti – derivano dal mancato finanziamento – dopo il concorso – della soluzione discussa e disegnata con lui. Riprendemmo quelle tracce nell’intreccio materico della piazza antistante. Molti temi alla base della Piazza di Fuorigrotta hanno radici in dialoghi con registi o nella ‘videocittà’ focalizzata in uno dei primi Festival di Narni curati da Carlo Infante. I grandi obelischi che delimitano come ‘termini’ lo spazio della Piazza, furono di supporto ad interpretazioni di artisti della comunicazione come Pietro Grossi, Marcello Aitiani, Mit Mitropoulos, Patrik Prado e Fred Forest. Con Fred proponemmo poi alcune sistemazioni per i giochi olimpici di Atlanta: è suo il buco del mondo cui si ispira la base della ‘ciminiera/periscopio’ della Città della Scienza a Bagnoli. Qui Dani Karavan ha realizzato la sequenza delle 19 porte della conoscenza fissando quello che diventerà il
percorso d’ingresso al Museo. Sempre nella Città della Scienza, captando elementi dello straordinario paesaggio di cui quella architettura voleva entrare a far parte, abbiamo realizzato il ‘pensatoio’, lavorando su ‘assenze’, smaterializzando, immettendo solo trame contrapposte ed un albero di ulivo.
Il luogo per pensare -realizzato a Verona in occasione della mostra ‘L’uomo e la pietra’, ma previsto per il Parco di Civita Castellana – intreccia esperienze e poesie diverse: un posto per navigare con la mente. Seduti, guardando il nord polare nella sottile fessura fra due muri a fasce orizzontali di pietra con diversi trattamenti, in sommità percorsi da rivoli sonori d’acqua saltellante resi metereopatici da una cellula fotovoltaica. Ci si siede su blocchi sagomati che sorgono dal piano ribassato, con inserti forati per raccogliere la pioggia fra muri arcuati a guisa di prora, pavimenti con inserti a bassorilievi indicano il tempo che trascorre. Fra alcune lastre del pavimento prorompono nontiscordardimé .

Linguaggi espressivi che hanno origine
nel design dei componenti
Pica Ciamarra Associati, Pensatoio,
Napoli/Bagnoli – Città della Scienza
Frank O. Ghery, Museo Guggenheim a Bilbao

Per Ponte Parodi a Genova, l’obiettivo era una Piazza che captasse la musica del vento avvalendosi di un’orchestra con regia informatica (dovuta sostanzialmente a Raffele Pisani, esperto di acustica di rara sensibilità ed esperienza). Tutt’altre le ‘arpe eolie’ del progetto (poi abbandonato) per l’attraversamento della Baia del Cattaro dove musica e luce volevano essere elementi forti del paesaggio. Attualmente Maurizio Nannucci si accinge a rafforzare lo spazio traforato
che impronta la Biblioteca comunale in costruzione a Pistoia. Queste esperienze – ma anche i recenti progetti di concorso per la Porte d’Hollerich a Luxembourg, l’ampliamento del Museo San Telmo a San Sebastiàn o il ridisegno di Piazza Brunelleschi a Firenze – sono tentativi che non si limitano al mondo delle ‘arti figurative’: emozioni che non coinvolgono solo il vedere, ma vorrebbero estendersi a tutti i nostri sensi. L’arte, la civiltà – come diceva Antoine de Saint-Exupery
– non ha solo a che vedere con le cose materiali, ma con gli invisibili legami che legano una cosa ad un’altra.
Il rapporto arte/architettura non si esaurisce in intrecci fra arti figurative o visive. Le trasformazioni dello spazio incidono fortemente sui comportamenti umani; possono liberare felicità, creatività, rapporti. In questo senso non ha senso la famosa affermazione di Oscar Wilde: tutta l’arte è completamente inutile. L
o spazio architettonico – se ci liberiamo da riduttivismi funzionalismi – trascende le utilità pratiche, ha l’utilità sostanziale di generare reazioni emotive, diverse nel tempo e nei contesti. Nei nostri ambienti sono fondamentali spazi di libertà, senza funzioni conosciute né derive in recite istituzionalizzate: dove si discuta, ci si confronti, ci si radichi, si manifesti.
Il rapporto arte/architettura coinvolge quindi molteplici forme di comunicazione ed espressione, dei singoli come della collettività. Gli spazi abitati riflettono la cultura e le ambizioni di una società. Una volta realizzati durano nel tempo, cioè sono vissuti ed utilizzati da altre mentalità. Lo iato temporale progetto/realizzazione, desiderio/realtà, è ampio anche quando diviene un’aliquota di quello in Italia purtroppo abituale. Tempo delle trasformazioni fisiche e velocità del mutare di esigenze e mentalità hanno diverso ordine di grandezza. Il disegno degli spazi non può quindi limitarsi a registrare desideri, deve aprire a possibilità, intelligenze, opportunità; assume qualità artistica quando – riecheggio un aforisma di Karl Klaus – trasforma la risposta funzionale, la soluzione, in enigma.

3. Non solo per gli edifici ed ogni trasformazione dell’ambiente di vita – a grande come a piccola scala – ma anche per le ‘opere d’arte’ un assunto basilare distingue espressioni autonome, autoreferenziali; messaggi, significati che prescindono dai contesti; dalle espressioni tese a partecipare, legarsi, immergersi. Non propongo gerarchie. Affermo
solo l’interesse prevalente per quanto sia forte nell’esplicitare il suo essere parte di un tutto. Altra è l’ammirazione per quanto non è ancorato saldamente ad un luogo, ai contesti fisici, spaziali ed a-spaziali che lo definiscono. Le divagazioni su queste tematiche sarebbero infinite: evito così anche di chiedermi perché un’immagine sottratta alla chiesa per la quale è nata, trasportata in un museo, non fa più miracoli.
Ancora, è diversa la valutazione per quanto nasce per essere stabile nel tempo, e quanto invece è effimero o comunque legato a temporalità determinate. Il disegno dello spazio – l’architettura nella sua accezione più ampia – l’ambiente di vitacome lo definiscono i francesi, è il quadro delle azioni umane: spazi costruiti, ma soprattutto quelli non costruiti dei quali feci apologia l’anno scorso proprio qui a Camerino (ArchitetturaCittà n. 12-13/2005).
Ho iniziato ricordando che un tempo dipinti e sculture erano parte integrante dell’architettura. Concludo parafrasando la nota profezia di Keynes – verrà un giorno in cui l’economia sarà ricondotta al ruolo secondario che le spetta e diventeranno prevalenti rapporti umani e creatività – auspicando il giorno in cui siano inconcepibili architetture che non indaghino il rapporto fra prevedibilità dello spazio ed imprevedibilità dei comportamenti umani.
Non più quindi sculture autoreferenziali anche se abitabili, bensì componenti del paesaggio capaci di stimolare rapporti ed ogni forma di socialità.
L’essere parte di un luogo e dei molti contesti che lo definiscono – tautologico in architettura – è inconsueto per molte altre forme di espressione se non per la land art. La raccolta della Fattoria di Celle – ne rendo la sintetica informazione ‘istituzionale’ di Pier Luigi Guastini – è uno straordinario esempio di arte ambientale,quella particolare forma di espressione in cui lo spazio non è semplice contenitore, ma parte integrante dell’opera. L’artista individua uno spazio per la realizzazione del suo intervento, studia gli elementi del luogo (clima, luce, vegetazione …), considera quanto pervade l’ambiente circostante, opera in simbiosi. Camminando nel parco, vicino a ricchezze botaniche e faunistiche, si scoprono ormai quasi 70 opere – tra gli alberi, nei prati, tra i filari di olivi, sulle acque dei laghetti, all’interno delle costruzioni – firmate da artisti contemporanei come Marino Marini, Magdalena Abakanowicz, Fausto Melotti, Bukichi Inoue, Roberto Barni, Dani Karavan, Alberto Burri, Olavi Lann, Beverly Pepper, Gianni Ruffi, Dennis Oppenheim, Robert Morris, Ulrich Ruckriem e tanti altri. A giugno, in occasione della presentazione del lavoro di Daniel Buren – la cabane éclatée aux 4 salles- intreccio labirintico/lineare di specchi e colori – apprezzando i minuti dettagli di questa ‘para-architettura’ riflettevo su come – a differenza dell’architettura che vive di contaminazioni, adattamenti, mutazioni d’uso – per le ‘opere d’arte’ il dettaglio – ogni elemento del linguaggio – è essenziale. Sopratutto osservavo come chi era lì, dentro ed intorno alla cabane éclatée, ne vivesse diversamente l’esperienza. Quelle di Celle sono straordinarie opere d’arte che perdono autoreferenzialità, proprio mentre in architettura vacue mode ricorrenti sembrano affermare l’opposto: gli edifici non solo si avvalgono dei minuti linguaggi espressivi dei propri componenti industriali, ma nel loro tutto addirittura sconfinano nel design, negli oggetti, esaltano proprie autonomie espressive.
Gli edifici che anni fa in Francia venivano definiti les objets trouvés (significato in italiano: non già trovati, bensì perduti, vale a dire quelli che, perso ogni rapporto, galleggiano nello spazio) – queste forme dell’edificare sono denominate oggi les solitaires, con tutta la tristezza del termine. Sono edifici che puntano a perfezione interna, si definiscono intelligenti, ma ignorano il contesto, proprio come le prime forme di vita, trasparenti, dotate di simmetria bilaterale, esseri primordiali
che poi, nella catena evolutiva, acquisendo la pelle e non più trasparenti, hanno potuto deformarsi o meglio acquisire reali ragioni di forma, stabilire relazioni, raggiungere superindividualità e quindi forme di socialità.
Se gli ambienti di vita debbono sostenere comportamenti, rapporti umani, creatività – mitigato l’interesse per gli oggetti in sé – si esalta quello per le relazioni, spaziali ed a-spaziali. Dall’arte negli edifici e dall’arte di costruire le città, si trasmigra nella costruzione sociale di nuovi paesaggi urbani, da cui città come opere d’arte.

Unicam - Sito ufficiale
www.archeoclubitalia.it
Archeoclub d’Italia
movimento di opinione pubblica
al servizio dei beni culturali e ambientali

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