Lorenzo Imbesi



Alla città progettata, quella dei formalismi e delle visioni architettoniche che la vorrebbero un aggregato unitario, si contrappone l’idea di metropoli composta da un insieme multiforme che non può più essere raccontata in un unico registro, ma attraverso le modalità in cui territori e reti si interconnettono dandosi nuove forme di progettazione e nuovi modi di abitare e far comunità. La metropoli si manifesta quindi come ambiente artificiale, un mondo di oggetti costruito da altri oggetti in cui la componente tecnologica assume il compito di organizzare la gestione dello spazio, come la convivenza e la vita di gruppi umani differenziati.
Il rapporto tra i termini considerati spesso antinomici di oggetto e città è stato rappresentato solitamente da due atteggiamenti storicamente antagonisti: da una parte l’idea della città composta da singoli oggetti, un aggregato multiforme in cui sono le singolarità a rappresentare la qualità, singolarità che spesso diventano emergenze in grado di instillare una forza aggregatrice e dinamica di altre singolarità, tra monumentalità e allestimento. Un esempio paradigmatico tra tutti, la funzione di riqualificazione urbana e al contempo di segnale architettonico che ha svolto il museo Guggenheim di Frank Gehry a Bilbao.
Dall’altra, il tema del tessuto urbano come aggregato rispetto ai singoli episodi, concetto connesso anche alla nozione di paesaggio urbano dove la città emerge nel suo complesso come oggetto di studio in cui evidenziare le relazioni tra parti e il valore d’insieme.
Altrettanto, può essere elaborata una terza accezione che ne evidenzia il portato processuale/produttivo e le dinamiche sociali: la metropoli come ambiente essenzialmente artificiale, ovvero un prodotto diretto o indiretto dell’attività umana, un ambiente chiuso in cui gli esseri umani vivono in un mondo di oggetti che hanno costruito essi stessi, emarginando di fatto tutto ciò che non è artefatto.
La storia della città sottolinea in questo senso una differenza dalla campagna attraverso una discontinuità spaziale nell’occupazione della terra: il limite estremo dell’urbano contrapposto al vuoto esterno ha per molto tempo significato il confine terminale a difesa da una natura aliena non addomesticata e selvatica. L’immagine delle mura medievali che cintavano la convivenza civile contro l’incognito esterno o l’aggressione barbarica, ne è una efficace rappresentazione.
La città è il luogo di densa vita comune di grandi masse umane.

L’idea di base dell’architettura e dell’urbanistica è quello della costruibilità tecnica del convivere di grandi masse umane differenziate verticalmente e orizzontalmente. In questo modo l’uomo si è costruito nel tempo un mondo artificiale: a fianco di foreste, paludi, savane, sorge un nuovo tipo di paesaggio che è il paesaggio artificiale delle città, uno spazio in cui vengono reinventate e organizzate le relazioni spaziali.
Con la costruzione delle città, l’uomo si contrappone come qualcosa di diverso dalla natura, sancendo il trionfo della scala urbana in grado di artificializzare estensivamente la superficie globale.
L’idea di organizzare in spazi ridotti la convivenza tra gruppi umani differenziati fa emergere la nozione di tecnologia dell’urbano per distinguere uno spazio artificiale da uno spazio, semmai sia esistito, naturale. Così, l’idea di costruire artefatti abitativi definiti da relazioni spaziali inventate dagli uomini, rivela un potere di plasmare artificialmente la propria forma di vita, rideterminandone tecnologicamente il profilo. Nella percezione, l’artificiale prende posto del naturale come presenza dominante, nel senso che è sempre più l’artificiale a delineare l’ambiente in cui si situa l’uomo, rendendolo contemporaneamente tecnologico e sociale.
La città concentra l’artificio e si presenta come fenomeno denso e compatto nei suoi strati sovrapposti di dispositivi, apparati, strutture, prodotti, utensili. L’habitat dell’uomo si mostra cioè come successione ripetitiva di artefatti continuamente manipolati per addomesticare spazi sempre più ridotti, nella quotidiana organizzazione della convivenza.
L’elemento tecnico ne diviene il fattore di unificazione sempre più indiretto, un principio produttivo chiuso e autogenerato che rivela le capacità dell’uomo di plasmare il proprio ambiente e la propria vita.
Nella storia, l’opera di continua territorializzazione dell’uomo dell’azione di addomesticamento della terra, implica la costante formulazione di regole condivise per ridurre l’imprevisto ed addomesticare la complessità. La città emerge, in questo senso, come il luogo regolato da codici prodotti per sintesi artificiale, un terreno ordinato attraverso norme sempre più universali e, quindi, rassicuranti, una griglia di riconoscimento in cui poter identificare ed identificarsi.
A questo proposito, un esempio è l’azione normativa che hanno svolto nel tempo le organizzazioni di unificazione degli standard, oppure le varie normative sulla sicurezza che hanno prodotto un’estetica diffusa che si riscontra dal particolare al generale: negli oggetti, nei materiali, nelle forme, nelle misure. La città si caratterizza così come un luogo istituito e quindi sicuro, igienico, sintetico, segnalato e misurato nella ricerca prestazionale attraverso rigorosi caratteri biometrici, un’organizzazione disciplinare esatta per la gestione dei corpi attraverso membrane, filtri, matrici, stampi, valvole, condotti.

L.I. Università degli Studi ‘La Sapienza’ di Roma

La città si mostra cioè come una successione ripetitiva di artefatti in cui l’elemento tecnico ne diviene la costante strutturale e strutturante, un coefficiente ordinatore che ne assimila i comportamenti e le geometrie. Forme, oggetti, spazi, relazioni sono misurati e codificati secondo precisi standard e criteri prestazionali: la costante tecnologica
ne diviene il coefficiente normativo in grado di contenere tutti i processi di formazione e sviluppo della città. Ancora una volta un segno ordinatore capace di stratificare reti e apparati tecnici e impianti per raggiungere la condizione di abitabilità totale della superficie, non solo nella direzione orizzontale, come vorrebbe l’estetica dello sprawl, ma superfetando ogni volume d’aria libero, ogni interstizio od intercapedine vuoto.
Nelle immagini urbane, le architetture non sono quasi più riconoscibili in quanto tali, ma sono contaminate, innestate, superfetate, un’‘architettura oltre la forma’ risultato della sovrapposizione di condizionatori d’aria, schermi billboard, antenne paraboliche, infrastrutture elettriche ed idrauliche. Queste presenze assenti che crescono come
graminacee sugli spazi architettonici senza accorgercene, ne definiscono non solo l’estetica, piuttosto ne indicano quelli che sono i comportamenti e le traiettorie sociali che si insediano nella metropoli.
Se con gli oggetti tecnici l’uomo non esercita solo un rapporto operativo, ma anche simbolico, percettivo, comunicativo ed estetico, gli oggetti tecnici diventano portatori di valori simbolici, di significati culturali e sociali profondi ed è attraverso gli oggetti che stabiliamo le relazioni che istituiamo con lo spazio, nominandolo. Il processo di semiosi dello spazio non trascende gli oggetti e i soggetti che lo abitano, piuttosto è attraverso di essi che ci appropriamo dello spazio, costruendovi i significati che di volta in volta vi attribuiamo, attivando quindi processi di ordine culturale. Artifici culturali.

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Archeoclub d’Italia
movimento di opinione pubblica
al servizio dei beni culturali e ambientali

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