L’importanza dello stupire

L’architettura si è ormai disposta a provocare stupore. Lo si è visto in tutte le recenti edizioni della Biennale di Venezia, lo si vede ovunque sorgano edifici nuovi di importanza. Le città si fregiano di straordinarie opere architettoniche, che diventano loro ambasciatrici agli occhi del mondo. Se il caso più emblematico è quello del museo Guggenheim di Bilbao, progettato da Frank O. Gehry alla fine degli anni ‘90, la ricerca dell’impatto emotivo si è ormai diffusa ovunque. E’ qualcosa che il pubblico apprezza e desidera. In musei come il Guggenheim o lo Judisches Museum di Berlino, progettato da Daniel Libeskind, abbiamo assistito a un fenomeno nuovo, almeno per la nostra epoca. Il pubblico spesso vi si reca per vedere l’architettura, prima che le opere contenute. Non sono fenomeni isolati. A Rovereto Mario Botta ha progettato il nuovo Museo di Arte Contemporanea che a sua volta è diventato elemento propulsore di cultura per tutta l’area geografica circostante, e che ha proiettato la città sul proscenio internazionale. Parigi, Barcellona, Londra, Berlino:
quante città hanno conosciuto in questi ultimi anni architetture nuove e stupende? L’architettura diventa elemento guida nella società, perché si costituisce come fattore identitario. Ma forse sarebbe più giusto dire “ritorna a essere”.
C’era un tempo in cui questa funzione, di “rappresentare” la città, era svolta dalle chiese. Il cupolone di San Pietro in Vaticano, con la facciata del Maderna e il colonnato del Bernini, ha stupito il mondo per secoli, e continua a stupire. Forse mai sarà realizzato un edificio che tanta emozione sa suscitare. Alla fabbrica del Duomo di Milano hanno partecipato scalpellini e artisti provenienti da tutta Europa, e la sua mole imponente, svettante nelle sue guglie, ha subito acquisito fama continentale.

La nuova chiesa di Loppiano: un esempio di architettura contemporanea significativa,
inserita con accuratezza nel contesto, capace di confrontarsi con la tradizione.

San Marco in Venezia, Santa Maria del Fiore a Firenze con la sua ineguagliabile cupola brunelleschiana… e tante, tante cattedrali, basiliche, monasteri sono stati per secoli, e sono tutt’oggi, araldi, centro, simbolo delle loro città. Di più, sono il luogo dove l’uomo, cercando il suo rapporto con Dio, lo celebra come un’offerta di meraviglia e di amore. V’è chi di fronte all’ambizione di stupire con l’architettura sente un moto di avversione. Come mai? Forse perché noi veniamo da circa mezzo secolo segnato dall’edilizia della peggiore specie, votata alla mera speculazione economica. Edifici sciatti e monotoni, spesso gabellati per “moderni” o “razionalisti” quando in realtà non sono che esempi di mancanza di attenzione verso il bisogno di bellezza. Ma opere come quelle che prima citavamo, esemplificano un’architettura di qualità, che oggi torna a dimostrarsi capace di comunicare. Così, con questo rinnovato impegno a suscitare stupore, l’architettura in realtà ritorna alle sue radici: alla capacità di fare cose grandi per offrirle come testimonianza: non solo del sentire di un’epoca, ma anche delle qualità migliori e delle aspirazioni più alte dell’uomo. Come si pone l’architettura delle chiese di fronte a tutto questo? Se la capacità di stupire con l’architettura non è estranea alla Chiesa, il problema è che alle chiese odierne si richiede qualcosa di ancora più difficile: di essere espressione inequivoca di una tradizione, di significare con chiarezza, di testimoniare con evidenza il proprio ruolo. Così, se l’architettura “laica” contemporanea sembra aver ritrovato una strada felice, nel campo della progettazione di chiese vi è ancora un problema aperto: quello della fedeltà alla tradizione. Il rischio è che ci si voglia nascondere in essa, come un tempo – negli anni ‘60 – è accaduto che alcune chiese siano state nascoste nell’edilizia sciatta dei quartieri di periferia. Non sappiamo come risolvere il problema, né spetta a noi farlo. Ma possiamo offrire un contributo: quello di permettere un confronto a tutto campo, di far conoscere quanto viene fatto nelle diverse parti del mondo, nei divesi approcci progettuali. La sensibilità estetica si educa solo in questo modo: osservando con attenzione quanto dalle parti più diverse viene proposto. Auspichiamo che da questo sorga una sensibilità nuova, che faccia delle nuove chiese, architetture che parlino della fede dei nostri giorni. Come San Pietro ci parla della fede – ma anche della maestria artistica e architettonica – della sua epoca.

Giuseppe Maria Jonghi Lavarini

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