L’ascensore a servizio del turismo


Muoversi in verticale nell’agriturismo o nell’albergo di montagna

Testo Renato Ruggero Raimondi

Un tranquillo week-end di campagna: fuori dalla civiltà. Lontano dal traffico, dall’affanno degli impegni di lavoro, dalle
ore coi minuti contati, dallo schermo del computer insolentemente acceso… La quiete campestre, l’atmosfera che sogniamo appartenere a un’epoca passata e che desideriamo ritrovare – anche se non l’abbiamo mai veramente conosciuta.
La campagna (o la montagna, o il mare: il luogo dove la natura predomina all’intorno e non l’artefatto) è sinonimo di riposo e di evasione: da tutto, anche dall’ansia che ci insegue nel momento in cui – in città – vogliamo andare al cinema o a teatro, o in discoteca, e siamo sempre inseguiti da mille urgenze. La campagna è il luogo di quel che i Latini chiamavano “otium”: lo stare soli con le proprie emozioni e i propri pensieri, immersi nell’unica azione del contemplare,
avendo lasciato alle spalle tutto quel che attiene al “fare”. Ma vogliamo veramente la durezza, l’asprezza, a volte il dolore associato col travaglio dei campi? No, qui la campagna è un fatto estetico, in cui si ricerca una pausa estatica. Un piacere che si aggiunga a quelli che già conosciamo e che ci accompagnano lungo i giorni e durante le opere che svolgiamo. Ergo: la vacanza in campagna dev’essere comoda.
E non è solo una questione di poltronaggine: là dove c’è capacità di accogliere c’è anche capacità di comprendere e di rispettare.
L’ascensore è l’emblema di queste capacità.
Per noi, per i disabili, per le famiglie con i bambini piccoli. Ed ecco quindi la locanda ricavata da un antico edificio, dalle origini medievali, di cui restavano i muri di tufo come relitto di un’epoca remota di viandanti e pellegrini che viaggiavano a piedi o a dorso d’asino.

Sotto: un hotel in Valle d’Aosta.
Pagina a lato: un agriturismo ricavato in un’antica costruzione rurale ristrutturata: l’ascensore è indispensabile strumento di comodità.
(Foto Athos Lecce)

Sulle colline toscane, quei lacerti murari ritornano edificio: il restauro li recupera rispettandone l’origine lontana, e ne fa un luogo di ospitalità. Un Bed & Breakfast circondato dalla natura, lontano – quanto è possibile essere lontani in un territorio come il nostro, densissimamente popolato – da strade e nuclei urbani. Lontano anche nel tempo, grazie al fascino di quei muri antichi e delle colline che restano come immutate da secoli. Negli ampi spazi composti di luce
di un salone ritmato da arconi che reggono un soffitto di travi lignee, l’ascensore – nitida presenza di vetro e acciaio – non è qualcosa di estraneo: è il segno stesso dell’accoglienza.
La scala ha un valore estetico, con la gradualità del suo mediare tra i livelli, con la pendenza che richiama alla fatica
del salire. L’ascensore, con la sua verticalità perentoria, è inevitabilmente “macchina”: ma, tra le macchine, la più gentile. Quella che non fa rumore e non desta preoccupazione: sale in un soffio grazie alla spinta pneumatica che ricorda un grande, profondo respiro. L’opaca struttura metallica e l’abbondanza di vetro ne fanno una specie di finestra interna che attraversa l’edificio in verticale, un prisma di luce.

In questa pagina, in senso orario: la scelta cromatica inserisce la torre metallica con semplicità; accanto a un edificio moderno si integra per contrasto; anche in campagna vi sono diversi piani da superare. (Foto Athos Lecce)
Pagina a lato: un vicolo di paese, la leggera struttura trasparente lambisce appena i muri. In alto: come un traliccio di supporto.

Se le strutture di servizio sono di solito legate a un’immagine priva di connotati estetici, nell’ascensore panoramico invece si trasformano in elemento che aiuta a godere i pregi dell’architettura storica. Un contrappunto tecnologico che rende facilmente avvicinabile lo spazio, misurato non solo in metri lineari e quadrati, ma anche nei secoli che si porta appresso e nella sua capacità di risorgere nuovo: per trovare nuovi destini, per accogliere nuovi ospiti. Non c’è vera ospitalità senza ascensore, e questo trova ovunque
una sua collocazione appropriata, perché è intimamente legato alla risposta ai nostri bisogni. Così, se non v’è spazio all’interno dell’edificio, lo si trova all’esterno. La struttura si appoggia alla parete assumendone i colori – con camaleontica plasticità – e associandosi ai decori esistenti. In un hotel di montagna, lo schietto disegno della facciata resta ulteriormente nobilitato dal castello per la corsa della cabina: la sua presenza esprime l’accessibilità del luogo. Perché respirare l’aria fine dei boschi di conifere non è privilegio riservato a chi sa inerpicarsi a piedi sui pendii, ma un piacere aperto a tutti. In collina, in montagna, in campagna.
Accanto a facciate nuove o antiche, in pietra o mattoni o intonaco, l’ascensore si accosta con la leggere
zza di una presenza che conforta: né grava sull’edificio, né dà il senso del sostenerlo. Perché rappresenta solo il desiderio di accogliere al meglio chi lo abita in permanenza o chi vi è ospitato per pochi giorni. Là dove i gradoni e i terrazzamenti,
i pendii e i dislivelli possono essere un problema per alcuni o per molti, l’ascensore esterno è la soluzione: con la sua delicata struttura che si limita a offrire aiuto, senza imporsi con prepotenza.

 

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