La tecnologia nell’architettura

La tecnica e l’arte, la forma e la struttura

Il Prof. Fabrizio Schiaffonati, del Dipartimento Building & Environment Science & Technology (BEST) del Politecnico di Milano, pone in evidenza come la progettazione architettonica debba andare di pari passo con la cognizione delle tecnologie che consentono la realizzazione del progetto. L’importanza di conservare adeguatamente anche le architettura degli anni ’50 e ’60.

Un tempo si studiava architettura nell’Accademia di Belle Arti. Poi nel ‘900 la Facoltà è passata al Politecnico. E’ così anche all’estero?
La figura dell’architetto ha subito una prepotente trasformazione nel corso del ‘900. La situazione europea è molto articolata, anche se con l’indirizzo dell’Unione Europea molto si è fatto per omologare la figura a partire da comuni obiettivi formativi definiti su analoghe competenze disciplinari nei corsi di laurea dei diversi Stati. Il modello di riferimento è quello “politecnico”, cioè basato su una cultura che integra le conoscenze artistiche e umanistiche con quelle scientifiche. È il modello francese dell’ensignement polytechnique poi assunto dal Politecnico di Milano, in cui la professionalità dell’architetto acquisisce competenze non solo sulla concezione tipologica e formale dell’organismo edilizio, ma anche sui principali aspetti tecnici che ne consentono la realizzazione e il funzionamento. È importante che le intuizioni progettuali siano fondate sulla cognizione della costruibilità dell’opera. D’altro canto l’architetto deve sapersi muovere formulando anche ipotesi innovative. Un buon esempio è il grattacielo Pirelli di Milano: l’intuizione formale di Gio Ponti, coerentemente fondata sulla cognizione della sua realizzabilità tecnica, viene felicemente risolta dal calcolo strutturale di Pierluigi Nervi.

"A volte la tecnologia può diventare un gesto eccessivo e portare a costi realizzativi altissimi, immotivati se dobbiamo correttamente intendere il concetto di conservazione delle risorse"
Prof. Fabrizio Schiaffonati

Accade che talvolta l’architetto pecchi di velleitarismo? Più frequentemente di quanto non si pensi.Tuttavia paradossalmente il problema che oggi mi sembra più acuto nelle scuole di architettura riguarda il peso non adeguato attribuito alle discipline storiche ed in generale d’ambito artistico, che porta a una caduta di capacità intuitiva per nuove soluzioni progettuali. Bisogna ritrovare un punto di equilibrio: ci vuole formazione e aggiornamento tecnologico senza perdere di vista la cultura umanistica e artistica. Se no si rischia un riduttivismo tecnicistico.

E’ un problema di sintesi tra forma e struttura.Vi sono momenti, come quello del Gotico, in cui si vede chiaramente l’unirsi di questi due aspetti… L’ansia della sintesi tra forma e struttura deve esistere nella mente dell’architetto fin dal concepimento del progetto. L’architettura è costruzione di luoghi, di ambienti, di spazi, e di relazioni. Non è un gesto gratuito, come potrebbe essere quello dell’espressione pittorica. Nella storia dell’architettura, antica e contemporanea, vi sono moltissimi esempi che dimostrano come proprio grazie a questa capacità di sintesi si realizzino grandi opere. Questo è vero per le cattedrali gotiche come per la cupola del Brunelleschi, per le opere di Nervi come per quelle di Wright o di Calatrava. Sono tutti esempi in cui si vede realizzato un perfetto equilibrio tra struttura e forma architettonica, in una prospettiva sperimentale di nuove soluzioni. Accade a volte che si propongano ipotesi di frontiera senza una compiuta analisi delle criticità che possono insorgere al momento della realizzazione. Ad esempio nel caso della chiesa progettata da Richard Meier a Roma, la tensione alla sperimentazione e all’innovazione nel campo del cemento armato ha comportato grosse difficoltà e notevoli ritardi nella realizzazione, per problemi non del tutto acclarati in sede di progetto. Anche per il nuovo Santuario di Padre Pio a Monte Rotondo, Renzo Piano ha seguito una strada ipertecnologica in particolare con i grandi archi strutturali costituiti da maxi conci in pietra locale, il cui taglio non poteva che essere eseguito a Carrara; così si è dovuto trasportarli per mezza Italia, con buona pace per il dichiarato approccio ambientale del progetto. A volte la tecnologia può diventare un gesto eccessivo e portare a costi realizzativi altissimi, immotivati se il concetto di conservazione delle risorse lo dobbiamo correttamente intendere. Senza considerare che il ciclo di vita di un edificio ipertecnologico tende a essere breve. Manca la “firmitas” vitruviana.

Il ciclo di vita degli edifici va accorciandosi… Oggi direi è nell’ordine dei cinquant’anni. Ragioni economiche spingono in questa direzione. Naturalmente un edificio come la chiesa, che è un luogo di riferimento e di memoria per tutta una comunità, oltre che una testimonianza storica importante, deve sfuggire a questa logica. Ritengo che anche le chiese costruite negli anni della grande espansione edilizia, gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, per quanto oggi possano palesare notevoli obsolescenze tecnologiche debbono essere conservate. Perché si tratta di artefatti rappresentativi di un’epoca, quasi sempre realizzati da validi progettisti. Le chiese del dopoguerra sono più fragili di quelle antiche, ma costituiscono un documento importante di un contesto storico e non solo dell’architettura.Vanno conservate e adeguate, sotto il profilo liturgico, ma anche edilizio e impiantistico. Credo che la sensibilità verso la conservazione dell’esistente oggi debba crescere: il 75% degli interventi architettonici si riferiscono alla conservazione o al restauro. E soprattutto verso le opere del dopoguerra trovo che non vi sia sufficiente attenzione.

Talvolta sono stati commessi errori… Vi sono stati diversi interventi disastrosi, per esempio casi quali quelli di applicazioni di vernici epossidiche idrorepellenti su mattoni a vista, causando ulteriori patologie. Un grosso problema oggi è quello della manutenzione e riabilitazione delle strutture in cemento armato. Il restauro richiede sempre un approccio assai cauto e rispettoso.

Vi è ricerca tecnologica nell’architettura? Non in Italia. In Francia sì, ad esempio col Centre Scient
ifique Technique du Batiment (CSTB), che peraltro lavora in sintonia con i grandi interventi infrastrutturali e urbanistici che si realizzano. In Italia un minimo di ricerca è svolto dai produttori privati. C’è una certa “ibridazione tecnica”: la ricerca chimica o sui materiali porta a ricadute applicabili anche nell’edilizia e nel restauro. Ma per intervenire su edifici da conservare occorre usare materiali e tecniche ben conosciuti, onde evitare risultati indesiderati.

(L.S.)

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