LA STORIA E L’ATTUALITÀ PROGETTARE LA MEMORIA NELL’ATTUALITÀ

C’è una diffusa nostalgia per la “forma-chiesa”, una “chiesa che sia veramente una chiesa”, come a volte avvertono i parroci nelle prediche domenicali: un “tipo” architettonico di assoluta chiarezza espressiva, di fronte al quale ognuno sia portato a fermarsi per rimirare, stupito e avvinto, una maestosità che sembra avere la capacità di rimandare immediatamente a una dimensione “altra”.
Nell’avvicinarsi alla chiesa sembra che ognuno si aspetti il massimo dell’estetica: il massimo della capacità di coinvolgimento emotivo. E questo è l’apprezzabile lascito di generazioni e generazioni che hanno voluto nell’edificio di culto onorare non solo la religiosità, ma anche la città nel senso più ampio del termine: l’aggregato urbano e il condensarsi delle sue tradizioni, il luogo in cui una comunità raccoglie i  propri affetti e li esprime nel modo più alto.
E ognuno, laico o credente impegnato, presbitero o turista distratto, ha nell’animo incise le immagini di pietre miliari della storia quali S. Pietro in Vaticano  o S. Maria del Fiore a Firenze, il Duomo di Milano o quello di Orvieto o di Monreale, la basilica di San Marco a Venezia o quella di San Nicola a Bari… Potrà mai una chiesa contemporanea avvicinarsi al senso di perfezione che ispirano questi modelli? Non solo non lo potrà, ma non è privo di problemi (come alcuni propongono) tentare di imitarli, perché quelle costruzioni sono frutto di una specifica cultura e di una corrispettiva tecnologia, oltre che di un ordine sociale che oggi è radicalmente cambiato. Noi non conosciamo i nomi di molti degli architetti che hanno lasciato preziose testimonianze storiche, ma terremo queste come un patrimonio ineguagliabile e cercheremo di conservarlo nei secoli, seguendo un  atteggiamento che è nato in epoca romantica, quando ci si è resi conto che qualcosa stava radicalmente cambiando nel modo di vivere, per cui si è sentita la necessità di mantenere intatto quanto tramandatoci dai predecessori, poiché nel futuro le cose sarebbero state diverse: a seguito degli sviluppi della tecnologia, dell’irrompere della democrazia, del diffondersi della produzione industriale.E le cose sono effettivamente cambiate: non solo, come si suol dire, a causa della ventata illuministica che scosse l’Europa alla svolta del XIX secolo, ma a causa di un mutato ordine sociale di cui l’Illuminismo fu un’interpretazione estremizzata negli accenti, nelle tensioni, nelle azioni.
Le grandi chiese che tutti portiamo nel cuore come modelli di riferimento sono state il frutto in ogni caso di attività a carattere prevalentemente artigianale, in cui ogni singolo concio di pietra, ogni singolo mattone, ogni centimetro quadrato di superficie è frutto di mani responsabili e capaci di offrire come un dono il proprio lavoro, destinandolo al Padre celeste.
Un dono per il quale era un onore spendere il proprio tempo. Si potrà rimpiangere, o non rimpiangere, quell’epoca: oggi con sano realismo è bene anzitutto accettare che lo stato delle cose è cambiato. Nell’era post torre Eiffel, post Empire State Building, post Guggenheim di Bilbao, coltivare l’idea di continuare a costruire chiese come si faceva nel Medio Evo, o secondo i tanti modelli imitativi lasciatici da molti autori otto e novecenteschi, è senz’altro plausibile e da diverse parti praticato, ma solo se si ha la serena coscienza di ricorrere alla nostalgica imitazione: arte onorevole e apprezzabile soprattutto in un campo come quello ecclesiastico in cui il deposito di memoria è fondamentale, ma forse priva di una caratteristica che concorre non poco alla qualificazione del prodotto architettonico: l’autenticità.
Occorre anzitutto avere a mente il ruolo fondamentale giocato dalla presenza della chiesa nel territorio.
Come scrive Severino Dianich: “Il linguaggio architettonico fornisce alla chiesa uno dei principali strumenti attraverso i quali manifestarsi alla città: con i suoi edifici, infatti, essa si colloca in maniera manifesta nel contesto abitativo di una popolazione, alla quale di fatto impone una sua presenza in una vistosa espressione di sé” (Severino Dianich, “La Chiesa e le sue chiese”, Cinisello Balsamo, 2008). Dopo aver esaminato come nella storia si è variamente posto il rapporto nello spazio fisico chiesa-città, Dianich osserva: “la costituzione conciliare sui rapporti della Chiesa con il mondo moderno poteva ribadire con forza la necessità per la Chiesa stessa, non già di imporsi, bensì di proporsi e di inserirsi nella cultura…”.A questo si riferisce anche il teologo benedettino, grande esperto di architettura ecclesiastica, Frédéric Debuyst: “… si tratta essenzialmente di far emergere una ‘poetica’ dello spazio di fronte alle tentazioni sia della ‘retorica’ sia della pura pianificazione quantitativa.
Infatti, uno spazio trattato con un’intenzione di pura rappresentatività esterna tende sempre, che sia antico o moderno, a ‘sfruttare’ i dati dei quali dispone (fossero anche religiosi) e a trarne il massimo effetto.
Lo spazio poetico, al contrario, lascia semplicemente salire in sé una presenza, alla quale offre la possibilità di esprimersi senza artifici, in quello che è il segreto del suo essere”. (“Chiesa, arte, architettura, liturgia dal 1920 al 2000”, Cinisello Balsamo, 2003).
Oggi si pone la domanda: qual è l’architettura capace di disegnare un edificio adatto al culto nei nostri giorni? E un’altra è correlativa: che cosa chiede esattamente il committente al progettista? Se la prima riguarda in vario modo tutti, a partire dai professionisti del progetto, la seconda riguarda anzitutto la Chiesa nelle sue gerarchie.
Riguardo alla prima, è molto significativo quanto ha scritto Maria Antonietta Crippa (“Danilo Lisi. Quattro Chiese. Complessità dell’architettura di culto”, Milano, 2007): «La costruzione di una chiesa rientra nell’orizzonte di una continuità di significato. Essa si inscrive in una dinamica di rapporto tra tradizione e creatività, tipica dell’Occidente cristiano». E, più oltre, citando Rudolf Schwarz: «Egli dichiara: “noi non possiamo tornare alle antiche cattedrali e riprendere la pratica interrotta della loro costruzione. Questo fu l’errore degli ‘storicisti’. Già lo strumento, la ‘tecnica’, vi si rifiuterebbe. In verità, in sé, sarebbe possibile imitare i profondi portali e i pilastri possenti del romanico o le volte a reticolo del gotico, ma non sarebbe una cosa vera. La parete per noi non è più una  pesante muraglia, ma una membrana tesa, noi conosciamo l’acciaio resistente alla trazione e con esso abbiamo vinto la difficoltà alla struttura a volta…”». A conclusione della sua esposizione, la Crippa esamina nel dettaglio le opere a carattere liturgico sviluppate da Danilo Lisi (riferendosi alle chiese di Santa Maria Goretti in Frosinone, del Sacro Cuore in Ceccano, di San Carlo in Isola del Liri e di San Paolo Apostolo in Frosinone) e, notando l’evolversi del disegno in questi quattro momenti, riferisce: «Colgo nella sua ricerca e nel suo approdo espressivo una sperimentazione di temi compositivi tradizionali, liberamente innestata nel patrimonio delle novità tecnologiche, costruttive e liturgiche contemporanee…In un periodo, come l’attuale, nel quale l’istanza veritativa pare caduta nell’oblio di molti a causa di un indebolimento dell’esercizio razionale, anche la qualità ontologica dell’architettura, suo inevitabile ancoraggio alle condizioni e al senso della vita degli uomini, appare secondaria e insignificante… la ricerca dell’architetto Lisi è in controtendenza, in quanto aperta a istanze ultime e sacrali».
Il termine “ricerca”, usato per qualificare i progetti di Lisi, è applicabile a tutte le chiese contemporanee.
Nessuna di esse infatti è un “tipo” ripetibile, malgrado la fortuna ottenuta da qualcuna, dalla notissima cappella di Ronchamp firmata da Le Corbusier, alla chiesa sull’Autostrada di Michelucci, a q
uella di Tor Tre Teste di Richard Meier: tutte variamente imitate, come se fossero l’espressione definitiva del “modello tipologico” dei nostri giorni, da diversi progettisti che evidentemente non si ritenevano capaci di forgiare una composizione specifica per una comunità e per un luogo specifico.
Poiché mancano “tipi” di riferimento, ogni chiesa nuova è frutto di una nuova avventura: la ricerca di un equilibrio dinamico tra il deposito di storia di un luogo (il “genius loci”), il riferimento ideale che si ricava dalla memoria complessiva dei 1700 anni di tradizione costruttiva di chiese, il riferimento alla specifica comunità che tale chiesa abiterà.
L’architetto interpreta questa articolata complessità e le dà un volto che è destinato a restare: come riferimento urbano e come sede del più profondo e umano degli affetti, quello che porta ciascuno a riconoscersi figlio, in quanto fratello del Figlio.
Riguardo alla seconda domanda. Se nella tradizione storica si era consolidata una chiara e definita sistemazione di ambienti, elementi, spazi… le richieste poste in coincidenza col Concilio Vaticano II hanno aperto un punto interrogativo, nel momento stesso in cui hanno portato il committente ecclesiastico a lasciare maggiore libertà interpretativa ai singoli progettisti.
Al proposito scrive Manlio Sodi, liturgista e presidente del Pontificio Istituto Teologico: «Quando si osserva il percorso che l’edifico sacro ha realizzato nella storia, all’occhio del teologo liturgista balza subito evidente che le essenziali linee dei grandi stili non fanno altro che rispecchiare la prospettiva teologica, e soprattutto ecclesiologica, tipica del periodo storico.E quando poi si fa un confronto tra la domus ecclesiae e molte realizzazioni dell’oggi, si percepisce in modo diretto come le soluzioni architettoniche messe in opera attorno e dopo il Concilio Vaticano II intendono essere la iconizzazione di una visione di Chiesa qual è quella presentata soprattutto nella Sacrosanctum Concilium e nella Lumen Gentium, pur senza trascurare la Dei Verbum e la Gaudium et Spes. Nell’analizzare le soluzioni prospettate emerge un’immagine di Chiesa proprio dalla disposizione dell’assemblea, sia in se stessa, sia in rapporto con tutti gli altri spazi». E, con riferimento specifico ai progetti firmati da Lisi, Sodi rileva: «Analizzando l’opera di Danilo Lisi sia nelle considerazioni teoriche sia nelle esemplificazioni progettuali, emerge che il punto di partenza e di arrivo è costituito dall’assemblea che celebra la Pasqua del suo Signore con una pluralità di linguaggi che “dicono” il coinvolgimento di tutta la persona». Quindi la chiesa edificio è luogo di memoria, significato, celebrazione ed è luogo della comunità. Certamente se ci si riferisce all’aspetto estetico, legato alla memoria, nessuna chiesa contemporanea mai potrà stare al pari con le chiese storiche che hanno accumulato nei secoli le testimonianze artistiche di generazioni, che a loro volta si travasano – e da sempre – nella sensibilità dei singoli costituendovisi quindi come momento archetipico. In quanto luogo di significato, la chiesa contemporanea si trova a tentare una rivivificazione di gesti liturgici che sono ripetuti e radicati, ma che hanno anche conosciuto cambiamenti nel corso della storia: è quindi legittimo che vi sia un certo, pur limitato, ambito di apertura all’interpretazione, che a sua volta si traduce nella difformità di giudizio espresso in queste pagine da diversi esperti riguardo all’assetto liturgico della realizzazione di Frosinone. In quanto luogo della celebrazione, la chiesa è chiamata a ospitare una comunità gerarchicamente costituita e quindi anche a rappresentare tale comunità pure al di fuori del momento celebrativo. E in quanto luogo della comunità in senso lato, cioè in quanto centro parrocchiale che opera in un contesto urbano, essa si articola in spazi diversi che, tutti assieme, costituiscono un ambiente integrato nella città ma da questa distinto, in cui diverse attività possono aver luogo in modo relativamente “protetto”. La progettazione ha quindi un’origine interiore e un’origine esterna. La prima si incentra sull’altare e da questo trae origine, in quanto questo è il luogo principe della liturgia. La seconda si incardina nei rapporti spaziali che si instaurano tra parrocchia e città. Il progetto si svolge per conseguenza come un tracciato, o una serie di tracciati possibili, che riconducono dal mondo “profano” al cuore celebrativo attraverso una serie di soglie, che sono momento di unione e di distinzione assieme.Lisi, con il suo progetto di San Paolo Apostolo, si pone questi interrogativi e vi risponde secondo la propria cultura e sensibilità. Nel cui ambito va anzitutto riscontrata la sua partecipazione emotiva e il deposito di suggestioni che derivano, al suo animo di frusinate, dalla consuetudine con tanti monasteri importanti che segnano la terra di Ciociaria: come Fossanova, Casamari e Trisulti, ma anche le non lontane Montecassino e Subiaco. Le visite in questi luoghi sin da tenera età e il deposito che lasciano nella mente, si ritrovano negli accenti più caratteristici del progetto di San Paolo Apostolo in Frosinone: ma anche in quello di San Giovanni Bosco in Terni.
La parrocchia in entrambi i casi è una cittadella ospitale i cui percorsi si collegano a quelli esterni e si prolungano nell’ambiente interno definito da oggetti architettonici che sono tutti espressione di un disegno nettamente contemporaneo, e che, assieme, compongono spazi che riecheggiano quelli propri del monastero: le sue scansioni gerarchicamente strutturate, i suoi passaggi, i suoi luoghi di sosta, la fitta trama di relazioni che collega ogni singola parte a ogni altra e al tutto.
Il sagrato della chiesa di San Paolo è anche un chiostro: sia per la disposizione avvolgente e protettiva degli edifici che lo attorniano, sia per la presenza del porticato. In tale sagrato-chiostro la chiesa si pone come elemento dominante: la proporzione volumetrica diventa di per sé espressione di un significato gerarchico. E l’organizzazione claustrale del sagrato permette che la porta della chiesa diventi trasparente, così da generare uno scambio immediato tra luogo liturgico e altri ambienti parrocchiali, tra i quali si stabilisce una specie di complicità, di contiguità, di complementarietà peraltro orientata alla forte assialità centrale dell’aula liturgica e al cospicuo slancio verticale del campanile.
Nell’elaborazione di queste architetture, Lisi ha la virtù di compaginare diverse suggestioni. Così che la chiesa si presenta come nodo di tante intersezioni.
«Danilo Lisi – ha scritto Giancarlo Priori (“Danilo Lisi: l’architettura come ri-generzione della memoria”, Frosinone, 1994) – è… grande appassionato e cultore del viaggio, afferma di aver “girato”, tranne uno, tutti i continenti della terra e di essere rimasto affascinato da così tante e diverse civiltà.Nel suo essere architetto ha sedimentato quelle culture così differenti che indirettamente, attraverso la memoria involontaria, è riuscito a mettere a frutto nei suoi progetti migliori… molte volte, per soddisfare le mutate esigenze di una società in continua trasformazione, si è fatto condurre per mano da un equilibrato uso delle nuove tecnologie».
E, insistendo su ciò, Loredana Rea scrive: «Danilo Lisi opera secondo un processo di complessa stratificazione, in cui significati, motivi, immagini si intrecciano tra loro nello svolgimento della pratica progettuale… fino a raggiungere la pienezza della propria esistenza che si traduce nel nitore di forme innegabilmente pure nella loro perentoria e inevitabile classicità; una classicità intesa non come rigida forma mentis pronta a tradurre nella plasticità del linguagg
io architettonico solamente un’azzerante convenzione e incapace di comprendere gli stimoli provenienti da linguaggi diversi….».
L’atteggiamento “classicistico” del progettare di Lisi, unito alla sua capacità di declinarlo in superfici e materiali e composizioni di spiccata contemporaneità, rendono il suo discorso consono all’individuazione di ambienti ecclesiastici, nei quali la ricerca di sintesi, di attualità e memoria è una cifra caratteristica.
Franco Purini, nell’analizzare il rapporto tra Lisi architetto e l’artista Fernando Rea (col quale Lisi ha operato in diverse realizzazioni di Frosinone), nota una diversità di approccio tra i due: «L’ispirazione saldamente classica di Danilo Lisi si pone in continuità con la poetica di Fernando Rea ma anche in competizione con essa. Per quest’ultimo l’arte è fuori dal tempo e quindi non ha il problema del proprio cambiamento…. Per Lisi al contrario l’architettura è funzione di una temporalità, è datazione della storia umana attraverso lo stile».
Inutile evidenziare come questi due atteggiamenti – aggiornamento nella continuità e radicamento nel riferimento a criteri assoluti – sia intrinseco alla Chiesa e alla sua storia, che da sempre conosce l’evoluzione secondo la sensibilità del momento, ma anche l’attaccamento a modalità che richiamano l’assoluto: quest’ultimo, un atteggiamento evidente nell’iconografia, unica arte canonizzata dalla Chiesa (Concilio di Nicea II) e tuttora viva, e non solo nell’Oriente ortodosso.
Lisi opera palesemente secondo la tradizione che riconosciamo come “occidentale”, pur se di indirizzo “universale”, in ciò affermandosi come felice interprete del progetto, al punto che Carmelo Strano di lui dice: «Ha ormai dato di sé l’immagine di architetto di provata esperienza in fatto di luoghi per il culto».E supera l’inveterata contrapposizione tra “spazio” e “decoro”: come evidenzia Mariano Apa che ravvisa “una capacità progettuale in cui viene ad esaltarsi la spazialità in quanto spazialità decorata, ovvero del decoro… come intenzionale qualificazione artistica dello spazio e dunque in quanto affermazione artistica del progetto architettonico. In queste costruzioni delle nuove chiese, non si detta un prima e un dopo del rapporto architettonico rispetto all’eventualità di un comprensativo appoggio artistico. In Danilo Lisi viene a evidenziarsi proprio la corrispondenza tra arte e architettura, tra il concetto di decoro in quanto spazio dell’edificio e dell’espressione artistica da parte dell’artista…”
Una chiesa dei nostri giorni, che aspira alla completezza di centro parrocchiale e si presenta come piccolo universo che, attraverso le proprie articolazioni, riconduce con chiarezza al proprio cuore liturgico.
Un progetto che non indulge in fantasmagoriche sperimentazioni formali ma sa, pur parlando il linguaggio della contemporaneità, mantenersi entro le linee guida di riferimenti filologicamente significativi, tra i quali gli sviluppi dei porticati e dei colonnati, o la relazione tra corpo della chiesa e campanile, sono le espressioni più evidenti. Come ha scritto Maurizio Calvesi, parlando di Lisi: “le ragioni che mi portano ad apprezzare la sua architettura: innanzi tutto la capacità di conciliare la ricerca del nuovo con la tradizione, introducendo nelle strutture quelle componenti simbolico-numerologiche che furono proprie, più di quanto non si creda, della grande architettura del Rinascimento”. Perché l’architettura è ordine: un ordine intrinseco, capace cioè di rappresentarsi in modo significativo (per esempio: i lucernari superiori che sono “trinitari”), ma anche estrinseco, capace cioè di inserirsi a “dare misura” all’intorno (tramite i raccordi e i raffronti tra complesso architettonico e quel che lo circonda). In questo si realizza l’importanza degli aspetti “numerologici”, che in Lisi sono misura e richiamo allo stesso tempo: in modo solare, esplicito; non nel modo arzigogolato e misterioso che molti intravedono in certa progettualità storica.
S. Paolo è un complesso parrocchiale che sa rappresentarsi e “spiegarsi” con chiarezza pur senza rintanarsi nella pedissequa ripetizione di linee che appartengono al passato. Un luogo, insomma, in cui le varie parti stanno tra loro in equilibrio e che, nel suo assieme, si pone in maniera nitida e feconda di fronte alla città.
Oggi non ha senso chiedere altro dal progetto di una chiesa nuova. Tra qualche secolo si saprà se in opere come queste si sia realizzata l’aspirazione a un nuovo linguaggio per esprimere l’edificio chiesa, eloquente nella contingenza e riconciliato con la storia.

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