La schiettezza del chiostro


ARCHITETTURA MONASTERO DI NOVY DVUR (REPUBBLICA CECA)

In linea con lo stile dell’Ordine cistercense, il progetto – vincitore del Premio Internazionale Frate Sole edizione 2008 – è stato affidato al minimalista John Pawson; questo ha trasformato una cascina di aperta campagna in luogo comunitario raccolto attorno all’ampio chiostro. Lo presentiamo col commento del P. Ab. Michael John Zielisnki, O.S.B. Oliv. *

Questa è la ristrutturazione di un edificio agricolo a corte: l’impianto risulta consono alla tradizione monastica, o
manca una maggiore articolazione in chiostri distinti?
Anche se esiste una "tradizione" che ci ha abituati a vedere le varie parti di un monastero articolarsi attorno ad almeno due chiostri: uno presso l’ingresso, da cui si accedeva ai locali comuni ai religiosi e agli ospiti, e un altro meno accessibile e riservato all’abate, l’architettura monastica ha sempre contemplato vari modelli e capacità di adattamento all’ambiente.
Nella Regola di San Benedetto i "claustra monasterii" indicano semplicemente i recinti, non una parte del monastero (IV, 78 e LXVII, 7). Il chiostro fu inventato come elemento con una funzione pratica di raccordo rapido di tutte le parti del monastero e di protezione dalle intemperie dei monaci che volevano pregare o leggere all’aperto anche nei
giorni di pioggia. Il moltiplicarsi di questo ambiente dipese dalla grandezza del monastero o da altri motivi locali e si verificò soprattutto in Occidente, dove la forma di vita cenobitica (comune) sopravanzò quella eremitica (infatti i monasteri di ordini semi eremitici, come i camaldolesi, ne fanno a meno).
In questo caso, la preesistenza di un fabbricato storico condizionava il progetto, ma mi pare che il risultato finale, con un unico chiostro centrale e sopraelevato, ne rispetti pienamente la funzionalità.

E favorisce pure il simbolismo di unità spirituale dell’edificio, modellato sulla forma della Gerusalemme celeste (cfr Ap 21, 16). Altre suggestioni mi affiorano alla mente guardando le fotografie dell’edificio: la luce che invade lo spazio del corridoio apre la strada al monaco e la luce, nella simbologia cristiana, è Cristo (cfr Gv 1, 9). Il monastero è come la sacra tenda, che accompagna i pellegrini (cfr l’Esodo), si appoggia sulla terra, ma non nasce da essa, fa percepire la vita come un pellegrinaggio che ha come meta il cielo: leggo così l’elevatezza del chiostro.

L’aspetto più vicino al sentire progettuale contemporaneo è il loggiato perimetrale privo di colonne: questo cambia
qualcosa nel rapporto tra vita monastica e chiostro?
Spesso le colonne dei chiostri tradizionali sono occasione per espressioni artistiche: la loro assenza comporta uno
svuotamento di valore simbolico?
Non credo che le colonne siano indispensabili per definire un chiostro: esse sono principalmente un elemento architettonico funzionale, cui possono essere attribuiti successivamente significati simbolici anche molto belli. A Novy Dvur i materiali utilizzati nella costruzione delle murature hanno consentito la realizzazione di un chiostro molto grande e luminoso, proprio grazie all’assenza di colonne o pilastri e alla loro sostituzione con una grande e semplice vetrata di protezione.
Per quanto riguarda l’assenza di figurazioni artistiche e simboliche, ciò è pienamente conforme allo spirito cistercense, severo, spoglio e "squadrato". Basti pensare alle parole sferzanti di San Bernardo nella celebre Apologia all’abate Gugliemo [di Saint-Thierry], dove ironizzava sul fatto che nei chiostri i monaci intenti alle letture dell’ufficio divino provassero "più gusto a leggere i marmi che i codici", alludendo alle figure curiose e talora mostruose di cui erano costellati i capitelli di colonnine e pilastri (XII, 28).

La chiesa, nella sua spoglia monumentalità ricorda alcuni progetti di R. Schwarz. A volte i suoi critici lamentano la mancanza di decori: la "nudità" dell’architettura. Ritiene che tale approccio sia appropriato per un monastero?
Mi viene in mente una celebre massima del commediografo latino Terenzio "ne quid nimis", "(mai) nulla di superfluo" (Andria I, 1, 34), passata poi nella Regula Benedicti (LXIV, 12) a proposito della moderazione dell’abate nella correzione dei monaci, ma che ben si può adattare allo spirito monastico in generale e all’architettura benedettina in particolare.
In questo senso penso che la scelta di un architetto minimalista come John Pawson sia stata felice.
L’architetto anzitutto ha dimostrato di conoscere molto bene lo spirito di San Bernardo e di aver colto che il cuore dell’esperienza monastica è il "silenzio ascoltante".
Di conseguenza, il suo "holy minimalism", minimalismo sacro, si rivela come la vera architettura monastica nella trattazione della luce e delle proporzioni, che producono una vera chiarezza spaziale nell’austerità ed essenzialità di luoghi, come il refettorio e naturalmente la chiesa.

Sebbene l’architetto si sia concesso qualche licenza rispetto al cosiddetto "plan bernardin" – soprattutto le tre navate e la pianta a croce che faceva della chiesa l’exemplum della città ideale – anche in questo caso è stato rispettato, a mio parere, lo spirito dell’architettura monastica.
Penso anzitutto alla luce che proviene soprattutto dall’abside e filtra invece in modo più discreto lateralmente,
all’applicazione costante del modulo "ad quadratum", nonostante egli abbia innalzato un’abside laddove san Bernardo preferiva una parete diritta, per suggerire il senso dell’infinito. Anche per quanto riguarda la "nudità" dell’architettura,
bisogna anzitutto notare che le immagini non mancano del tutto – ci sono una croce d’altare e un’immagine mariana – ma sono essenziali e funzionali alla liturgia.
Trovo che questa scelta ancora una volta minimalista ben di addice al
contesto e alla spiritualità monastica, che necessita di poche mediazioni, come affermava sempre san Bernardo nel passo citato.

Nelle foto: il refettorio. L’Interno della chiesa, con l’ambone al centro tra le due file di stalli. Risalta la linda semplicità dell’alto volume che termina con un’abside. Vista esterna: il terreno è in leggera pendenza ma il chiostro è orizzontale, si nota il volume della chiesa che sporge con l’abside.
Nelle pagine precedenti, il chiostro che, in omaggio alla modernità, presenta una vetrata continua.
La pianta del monastero.

* P. Michael John Zielinski è Vicepresidente della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e Segretario della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.
Nato in una famiglia polacca a Lakewood, negli Stati Uniti, è stato ordinato presbitero nel 1977 per l’Istituto Maschile Congregazione Benedettina Olivetana.
Nel dicembre 2003 è stato eletto abate di Nostra Signora di Guadalupe nel Nuovo Messico (Stati Uniti) e ha ricoperto tale incarico sino al maggio 2005, quando è stato nominato alle sue attuali responsabilità.

In realtà egli, nella foga della polemica contro una "mal regolata devozione" verso reliquie e immagini sembra quasi dimenticare che esiste una teologia vera e propria delle immagini, sancita dal Concilio ecumenico Niceno II (787) e comune a tutta la Chiesa. Secondo questa dottrina, che per la Chiesa cattolica è stata ribadita dal Concilio di Trento (Sess. XXII) e dal Concilio Vaticano II (Sacrosanctum Concilium cap. VII), le immagini hanno un ruolo ben definito nella liturgia, nella devozione e nella catechesi di tutto il popolo di Dio. Per tale motivo in nessuna chiesa cattolica dovrebbero mai mancare
le immagini propriamente liturgiche, ma in chiese parrocchiali, abitate da assemblee più eterogenee, vedrei l’utilità di cicli di pitture su muro o su vetro che illustrino i misteri della salvezza e creino con i loro colori un ambiente festivo e accogliente.

Leonardo Servadio

 

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