La locanda della felicità


Il cinema di casa felice

Zhao è un uomo maturo, lavora ancora, ma è prossimo alla pensione. È uno spiantato, non ha mai avuto fortuna in amore, desidera accasarsi e preferirebbe trovare una compagna dal fisico asciutto, ma queste ultime non sembrano nutrire interesse per lui.
Finalmente trova una donna disponibile, seppur cicciona e avida (stereotipo dell’individuo tronfio e cinico scaturito dal benessere), alla quale non osa confessare la sua vera condizione, per cui finisce con il fingersi facoltoso e capace di organizzare un matrimonio al di là delle sue possibilità.
Disperato e alla ricerca di quattrini si rivolge al suo amico del cuore, che ormai stanco dei suoi fantasiosi piani, gliene propone uno ancor più stravagante: riattare un vecchio autobus in disuso, collocato in un parco assiduamente frequentato da coppiette, per trasformarlo in una "locanda della felicità", una sorta di originale albergo ad ore che sarebbe piaciuto sia a Jacques Brel e a Herbert Pagani per aggiornare il loro noto motivetto ("Io lavoro al bar di un
albergo ad ore, porto su il caffè a chi fa l’amore …"), che a Marco Ferreri per progettare una versione ad uso giovanile della sua Casa del sorriso. Il piano va a gonfie vele: l’autobus dagli interni rossi e dai finestrini oscurati da colate di vernice altrettanto vermiglia e inquietante soddisfa gli appetiti e la curiosità dei giovani, desiderosi di intimità; così Zhao si trova a guadagnare e a racimolare persino i soldi per procurarsi un bouquet di rose rosse da portare alla fidanzata (con il benestare di Ken Loach che reclamava nel suo film, Pane e rose, il diritto per i lavoratori di poter acquistare non solo il pane e il companatico, ma anche quel poco che può dare sapore e profumo alla vita). La donna ha comunque i suoi scheletri nascosti nell’armadio: un figlio altrettanto obeso, vittima del consumismo più becero e omologante, che rende cieche le pulsioni di ascolto e comprensione dell’altro da sé, e una figliastra realmente
non vedente, creatura fragile, in balia di abbandoni colpevoli e di autoritarismi sordidi, comportamenti degni della matrigna di Cenerentola.

Il ragazzo e la matrigna non si fanno scrupoli a maltrattarla e a espropriarla della camera che le appartiene, occupandola con oggetti che risultano alieni sia al suo tatto, sia alla tradizione cinese, di cui permane il cromatismo vivace, ma reso artificioso tramite un campionario di plastica pop. La favoletta potrebbe volgere al lieto fine con il coronamento delle nozze ambite, ma per Zhao c’è ancora una prova da superare: trovare un lavoro per la figliastra, abbandonata dall’ex-marito della donna, reo di essere fuggito con il malloppo sottratto
all’arpia con l’intento di fare fortuna per guadagnare la cifra sufficiente per operare la ragazza, che continua a credere
nella bontà del progetto tramato dal padre. Zhao chiede aiuto agli amici e ai colleghi di lavoro e da questo momento in poi assistiamo ad un film completamente diverso, viene abbandonato vieppiù il registro comico e il personaggio
evolve dalla sua maschera macchiettistica per approdare a un ben più pregnate spessore narrativo. Tra Zhao e la giovane scatta naturale una scintilla, una fiamma di solidarietà che ricorda per certi versi il legame elegiaco
che già Takeshi Kitano aveva saputo intessere con il bambino alla ricerca della madre in L’estate di Kikujiro: in questo film un sottile filo rosso univa, solo nel corso della stagione estiva, due individui alla deriva, il cui destino si intrecciava
per caso e, dopo averlo svagato e abbandonato a fughe degne di un Pierrot lunaire, rientrava nei ranghi di una quotidianità ricomposta, seppur alla luce di una crescita maturata dalla reciproca frequentazione. Zhang Yimou non si
concede invece divagazioni oniriche e surreali: gioca sulla falsificazione della realtà per compiacere i piani di un anziano maestro, che camuffa spazi, ambienti o sottrae oggetti per assecondare il suo proposito di convolare a
nozze sicure, però stavolta è l’altro soggetto, quello debole e agito, a giocare la parte adulta della situazione e a dare scacco matto alla partita.

Titolo: La Locanda della Felicità (Happy Times)
Regia: Zhang Yimou
Sceneggiatura: Gui Zi
Fotografia: Hou Yong
Interpreti: Zhao Benshan, Dong Jie, Dong Lihua, Fu Biao, Li Xuejian, Len Qibin, Niu Ben, Gong Jinghua, Zhang Hongjie, Zhao Binggkun
Nazionalità: Cina, 2000
Durata: 1h. 46′

La giovane finge di assecondare i disegni del vecchio, che la infinocchia per farle credere di averle trovato un lavoro come massaggiatrice nella sua "locanda della felicità" (applicazione tattile adatta ad una cieca), si diverte a osservare,
proprio lei che è orba, i marchingegni con cui gli amici di Zhao credono di fregarla, pagandola per i suoi servizi con carta straccia, anzichè con banconote, ma si adegua e si affeziona alle circostanze, perché comprende la loro autentica bontà d’animo nell’orchestrare gli stratagemmi, a cui ricorrono per aiutarla a immaginare un destino migliore. Sono buffi i tentativi di questa banda di pensionati nel prodigarsi a inventare un albergo che non esiste, trasformando gli interni di un capannone industriale in corridoi e stanze enormi, tappezzate di finta stoffa, dove l’andare a tentoni risulta facile e agevole, persino per chi non è dotato di vista. La ragazza mangia la foglia, accetta la mansione e simula di trovarsi a proprio agio in questa nuova realt&a
grave; lavorativa: in fondo spera, così facendo, di poter mettere da parte abbastanza soldi per riunirsi al padre e potersi curare. In realtà quando la simulazione si fa insostenibile, anche perché i soldi non sono sufficienti a mantenere il gruppo solidale, la ragazza non ha problemi a mettersi in disparte, a tornare sulla strada per aprirsi a un domani diverso, certamente travagliato e doloroso, perché ha dalla sua il coraggio di aver sperimentato il senso di fratellanza, lo spirito di gruppo, l’appartenere a una comunità, che si fa
carico dei problemi del singolo, vivendoli come disagi comuni (Menenio Agrippa docet). Il film si concede momenti di dolcezza squisita, semplici divagazioni che hanno il pregio di rinvigorire i legami tra gli individui, facendo perno sul significato essenziale di espressioni come "darsi da fare, pensare insieme, responsabilità condivisa", offrendo siparietti divertenti riguardanti il gruppo di pensionati alle prese con la risoluzione del problema fondamentale: come convincere una giovane, privata del senso della vista, a restare con loro e a credere di fare un servizio utile alla collettività… Ma le sequenze memorabili appartegono al duetto dei protagonisti: un vestito nuovo, color rosso cardinale con disegni di fiori dai petali bianchi, sfoggiato dalla giovane, per essere ammirato dall’anziano, che gliel’ha
donato, impegnando il televisore…; una splendida affusolata mano femminile che palpa per strada le fattezze di Zhao, per scoprire i tratti del suo volto e poterli imprimere nella memoria, colorando così di immagini il buio di uno sguardo
cieco… E che dire dei tagli delle inquadrature sui primi piani: qui si riconosce la mano del maestro della quinta generazione dei registi cinesi; nella sua scelta dei dettagli da illuminare e di quelli da lasciare in ombra o da immaginare fuori dai fotogrammi risiede il suo talento visivo, stavolta forse un poco sbilanciato sul versante calligrafico, perchè l’interesse fondamentale consiste nell’offrire volti e corpi, metafora dello stato di una nazione, in balia di fermenti e aperture incondizionate all’Occidente.
Corpi, immagine di un declino ineluttabile: imprigionati nel loro vacuo benessere confortevole, oppure aperti a timidi contatti, volti a conoscere l’altro per poterlo riconoscere nella massa, distinguerlo per primo, quando gli occhi finalmente potranno ritrovare la facoltà di vedere. Il finale, avvertito come eccessivamente consolatorio e strappalacrime durante la visione, acquista una valenza diversa, ripensandolo a posteriori. Si apprezza la struttura scelta dal regista che riesce a rendere sincrono un sonoro parallelo: le due lettere non arriveranno mai al loro legittimo destinatario, ma il cinema riesce nel miracolo di recapitarle idealmente, alternando l’amico-tramite che ha l’arguzia di leggere a voce alta quella scritta, mentre scorre quella registrata, ai due destinatari distanti spazialmente, ma non nel montaggio cinematografico. L’impressione è che l’uno (l’anziano ricoverato in una sala di rianimazione) riesca a percepire le parole dell’altra (la giovane che se ne va solitaria incontro al suo destino di non vedente con bastone), a sua volta commossa da espressioni che lo spettatore sente, attribuendovi le reazioni emotive che lascia trasparire il volto di lei. Una sequenza costruita bene già in fase di sceneggiatura, esaltata da un montaggio impeccabile su entrambe le bande: quella sonora, appannaggio della cieca, e quella visiva, rivolta a noi.
Sfruttando questo stratagemma, Yimou riesce nell’intento di trasformare Zhao nel vero padre della ragazza: ruolo che gli viene già sancito dagli infermieri dell’ospedale, che ritrovano la lettera nelle sue tasche durante il ricovero
post-incidente, ma che egli consegue soltanto nel momento in cui la lettura della lettera da lui vergata gli attribuisce
la funzione genitoriale, in senso anche di trasmissione di una tradizione messa tra parentesi dall’attuale corsa
all’occidentalizzazione.

Le opere di Zhang Yimou (Cina, 1950), pur dalla fruibilità visiva insolita, non trascurano l’esigenza artistica di cui il cineasta è maestro; il regista cinese riesce a comunicare con una facilità invidiabile, sia con il grande pubblico che con gli specialisti del cinema, virtù pressoché latitante nella categoria degli autori.
Zhang Yimou, il maggior esponente della cinematografia cinese, peraltro di non facile produzione, da studente costretto dal partito per questioni politiche ad abbandonare la scuola, ha lavorato per sette anni come operaio tessile e per tre come contadino, prima di essere ammesso con pieni voti all’istituto di cinematografia cinese. Un infanzia particolarmente travagliata, quindi, che soltanto grazie alla sua particolare tenacia e determinazione si è realizzata nella cultura, precedentemente negata. Dopo aver fatto un po’ tutti i mestieri nel cinema, vince inaspettatamente, nel 1987, il Festival di Tokyo come miglior attore.
Il film d’esordio alla regia è "Sorgo Rosso" del 1988, subito Orso d’Oro al Festival di Berlino; storia violenta di un feudalesimo cinese pieno di incredibili usanze-imposizioni, esistenti ancora oggi. "Operazione Puma", è il suo secondo lavoro mai arrivato in Occidente e semisconosciuto in Cina; film, a detta dello stesso regista, insoddisfacente per colpa della spietata censura cinese che lo ha stravolto. Nel 1990 esce nelle sale "Ju Dou", primo film cinese ad impiegare capitali stranieri per la produzione.
Operazione fortemente voluta dall’autore al fine di usufruire di materiali e tecniche migliori, pur impiegando staff e attori rigorosamente cinesi. Zhang ha così firmato la regia per la prima pellicola del suo paese candidata al premio
Oscar come miglior film straniero. Non solo! "Ju Dou" è stato inoltre premiato a Cannes, Chicago e Valladolid. Lavoro straordinariamente bello, una tragedia feudale impregnata di scene erotiche poco comuni per il cinema cinese, narrata attraverso una splendida fotografia e un esasperato, ma sempre raffinato, uso del colore.

Tutta l’opera di Zhang si caratterizza per una filmica sempre accurata e calcolata, una dedizione assoluta per i particolari e per la fotografia (non a
caso è stato primo premio al concorso nazionale di fotografia a Pechino) e l’uso particolare dei colori, in special modo il rosso.
Dopo una parentesi da attore, nel 1991 la pellicola successiva "Lanterne rosse", riceve cinque premi a Venezia tra cui il Leone d’Argento, nonché di nuovo una candidatura all’Oscar. Ancora una tragedia, girata in una società feudale caratterizzata da rigidi rituali; la messa in scena è perfetta e tutto si incastra armoniosamente. Per "La storia di Qui Ju", Leone d’Oro alla Mostra di Venezia, arriva finalmente il pieno riconoscimento internazionale da un festival importante. Per questo lavoro, con l’intento di girare in modo realistico e nel tentativo di limitare al minimo la recitazione, ha filmato di nascosto gli esterni nei mercati e per le strade, con non pochi problemi, predisponendo tutto di notte e nascondendosi con lo staff o in un vecchio camion opportunamente parcheggiato, o in una stanza dalla quale "spiare" impiegando microfoni nascosti sugli alberi e addosso agli attori; inoltre ha nascosto, mischiati tra la folla e travestiti da contadini, l’aiutoregista e il direttore della fotografia, collegati con Zhang con ricetrasmittenti. Nel ’94 è la volta di "Vivere!", che racconta della capacità di sopportazione di una famiglia, nonché delle sue esperienze terribili, attraverso quarant’anni di storia cinese. "La triade di Shanghai", è stato girato come un film noir, comunque un buon momento di cinema ma leggermente in ombra rispetto alle opere precedenti probabilmente per colpa della rottura, sul set, del decennale rapporto artistico-sentimentale che legava
il regista con l’attrice principale di tutti i suoi film, la bellissima e conturbante Gong Li. "Keep Cool", è il primo lavoro del
regista girato nella Pechino d’oggi. Il curriculum di riconoscimenti di Zhang Yimou, nel firmamento cinematografico degli
ultimi quindici anni, è secondo soltanto a quello di Emir Kusturica. Ricordiamo ancora che Zhang ha il merito di essere
stato il primo regista cinese d’esportazione, quindi in assoluto il primo a confrontarsi con i colleghi occidentali.

 

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