La chiesa di San Pio di San Giovanni Rotondo (FG) UN’ARCHITETTURA SACRA CONCEPITA SENZA “PROFITTO SPIRITUALE”

CHIESAOGGI ISSN 1125-1360   vol. 105
DOI:  10.13140/RG.2.2.16293.70882

ABETI Maurizio (IT)

Introduzione
Questo lavoro non vuole essere una descrizione delle caratteristiche compositive, tipologiche e dimensionali della chiesa di San Pio da Pietrelcina di Renzo Piano, oramai più che pubblicate, ma un intervento “deciso” per evidenziare: da una parte che l’architettura religiosa di questa chiesa, realizzata da uno dei massimi esponenti dell’architettura internazionale, si è proposta come un edificio multifunzionale, a mio parere adibito principalmente a uso palestra (soffermandosi alla pura dimensione stilistica dello spazio, senza contemplare la valenza escatologica, simbolica e semantica che essa possiede e veicola); dall’altra la dimostrazione dell’adeguatezza e della semplicità progettuale che si raggiunge (a livello del sistema linguistico – tipologico – simbolico – liturgico) nel momento in cui la riforma liturgica, attivata dal Concilio Vaticano II, viene realmente e completamente attuata.
A questa mancata traduzione espressiva contribuisce un altro componente del sistema costruttivo: la committenza ecclesiale, la quale, avviluppata dalla spirale di scristianizzazione del nostro tempo, non riesce ad avere un dialogo con l’architetto, l’artista, il teologo, il liturgista.
La storia dell’architettura sacra ci insegna che dalla partecipazione attiva delle esperienze (da un lato quella simbolica-spirituale dei teologi e quella artistica-tecnica degli architetti, e dall’altro quella del popolo di Dio, come punto di partenza e di arrivo dell’edificio sacro in quanto la Chiesa è la comunità dei fedeli) si è pervenuti all’edificazione di opere architettoniche di degna ammirazione e di altissima espressione sacrale, ma quando questa compartecipazione si è resa difficile è stato evidente il segno di una crisi.

La valenza simbolica dell’edificio-chiesa
Le riflessioni che seguono si propongono di illustrare sulla chiesa di San Pio la crisi della sua espressione formale e/o metodologica per quanto riguarda il suo aspetto architettonico.

Inizio riportando quello che scriveva qualche tempo fa
Bruno Zevi: ‹‹A tale processo l’Italia effettivamente non partecipa. Le nostre chiese, anche quelle qualificate sotto il profilo architettonico, ribadiscono impostazioni fruste, prive di vitalità e di messaggio. … eliminano la decorazione… e principalmente non plasmano nuovi spazi.
La colpa non è degli architetti, ma del committente che impone contenuti anacronistici e s’illude di rammodernare la chiesa solo aggiungendo al suo organismo un cinema parrocchiale. L’Italia è assente dalla nuova architettura sacra per la mancanza di genuina ispirazione, di volontà inventiva e di profonde esigenze religiose››[1].
Da questo prendo spunto per dire che quando si parla di progettazione delle chiese si vuole indicare l’architettura sacra, senza distinguere di quale rappresentazione religiosa si intende parlare, come se tutte fossero depositarie delle stesse problematiche. Con questo articolo vorrei fare conoscere che, mentre le moschee e le sinagoghe non ostacolano la diffusa iconoclastia che caratterizza gran parte dell’architettura moderna, le chiese cattoliche si fondono su una iconografia esplicita. La progettazione delle prime non pone contributi particolari o caratteristiche speciali alla propria architettura, la progettazione di quelle cattoliche necessita di un linguaggio figurativo-sacramentale di segni spaziali e simbolici. Proprio per questa ragione sono incoraggiato a esaminare la metafora “conchiglia” (Mollusco Nautilus), intorno alla quale si e sviluppata l’opera di Renzo Piano, che ben poco ha di specificamente cristiano: immagine di una forma artistica in libertà assoluta con slanci espressionistici di vele e di pilastri.

La perplessità che si nutre osservandola è legata alla sua non valenza simbolica, significativa e comunicativa degli spazi e in generale del suo risultato architettonico.
Nel caso dell’architettura sacra, che qui interessa, il linguaggio simbolico, componente fondamentale della ricerca architettonica sacra, doveva echeggiare non solo una qualità comunicativa, ma soprattutto una rivelazione in un

rapporto tematico di “comunione” e riuscire, nel suo processo costruttivo, a fondere la sua creatività, composta d’armonia, di volumi, di linee, di luce, di colore, con la verità liturgica [2] , al fine di arrivare, dall’ottica del formare simbolico, ad esprimere un organismo architettonico completo e comprensivo. Infatti, il significato linguistico del simbolo è di segno efficace, solenne, che richiama immediatamente e completa-mente una realtà importante ma nascosta o solo approssimativamente definibile. Questa dimensione trascendentale del “rimandare a” doveva diventare il centro di ogni suo elemento formale, che nel tema sacro i fedeli sentono come significazione dell’arcano essere divino. Ma l’oggettivismo architettonico sacro di questa chiesa non contribuisce a vivificare questa “comunione”. Il suo abbraccio allo stilema tecnicistico, caratterizzato dalla struttura tendale a spirale, non esprime nessun impulso spirituale, ma l’esaltazione del progresso tecnologico e insieme l’ambizione di generare un senso di grandezza: è l’architettura così detta “funzionale”.
Pur ammettendo che la vita moderna ha reso necessarie nuove manifestazioni, nuove forme architettoniche, non si può dimenticare che l’organismo chiesa ha un ruolo fondamentale di presenza cristiana, segno di salvezza per tutti gli uomini.
Si avverte che questa “casa” della preghiera non si pone come segno spirituale, visibile: ‹‹Costruì il suo tempio alto come il cielo e come la terra stabile per sempre›› (Salmo 79,69). Essa emerge rispetto al contesto costruito, d’altronde non poteva essere posto al pari, ma è un emergere che rappresenta un ritorno nostalgico all’architettura monumentale del passato, che con le sue preminenze dimensionali ha falsificato i valori spirituali del Cristianesimo o un processo di esaltazione formale della composizione architettonica sacra; non è un relazionarsi a costituire un forte richiamo simbolico di “luogo” d’incontro con Cristo nella liturgia. E poi, la perdita dei simboli caratterizzanti gli edifici-chiesa del passato, quali il campanile (questo è composto da nove sottili e bassi pilastri in cemento armato, indipendenti e paralleli, fra cui sono sospese otto campane), la cupola (mancante), ha contribuito a rendere il linguaggio espressivo di questo organismo architettonico appiattito e omogeneizzato.
Oggi il “successo” dell’edificio religioso deriva dal rapporto che è in grado di instaurare con l’ambiente circostante, un coniugarsi anche con l’utilizzazione e il recupero degli elementi formali esterni, lo studio attento della scelta dei materiali, i suoi colori, ma soprattutto dall’essere capace di lanciare un messaggio architettonico compiuto, senza equivoci, integrativo del semplice segno terreno: esso è ‹‹la dimora di Dio con gli uomini›› (Apoc.21,22).
Reinhard Gieselmann e Werner Aebli nel loro libro, dal titolo Kirchenbau, affermavano: ‹‹L’architettura chiesastica ha perduto significato nella nostra epoca: né il suo inserimento nel costume edilizio, né la sua espressione reggono al paragone dei prototipi antichi››[3] .
In definitiva, la composizione architettonica sacra di questo edificio religioso, che doveva poggiare il suo fare sui veri significati simbolici delle forme, che esse stesse veicolano, evitando così che altri significati, associati in maniera indiretta alle medesime forme, potessero sviluppare immagini contrapposte delle stesse (palestra), non è stata curata sotto quest’aspetto.
In questo senso, la chiesa di San Pio realizzata, quindi, senza porre attenzione alla valenza simbolica, cioè senza effettivamente raffigurare ciò che la chiesa vuole essere, sia in riferimento ai suoi significati archetipi che a quelli storicamente determinati, andava concettualizzata con figure che raccontano la chiesa, che è il suo contenuto essenziale, e non con la sua forma a “conchiglia”, tanto da farla risultare più vicina alla concezione estetica dell’iconoclastia protestante.
La chiesa madre di San Giovanni Rotondo, con il suo sistema architettonico, non poteva che essere limitata nella generalità di una religiosità sincretistica o nella New Age di una significazione funzionalista e razionalista, e finire, e mi ripeto, di mostrarsi come un palazzetto dello sport o al massimo come una esibizione strutturalistica.

Confronto con le prospettive aperte dal Concilio Vaticano II

a. La configurazione dello spazio sacro: centralità e assialità
Una delle determinazioni più importanti della riforma conciliare è stata la riscoperta della celebrazione comunitaria dell’Eucarestia, la quale, eliminando l’impostazione verticistico-clericale e ridando dignità al popolo di Dio (lingua del popolo e celebrazione rivolta verso i fedeli), ha recuperato una ecclesiologia comunitaria.
Ma prima mi corre l’obbligo di citare, pur se in linee brevi, due figure che in qualche modo hanno anticipato la profonda trasformazione dell’edificio-chiesa dettato poi dalle riforme del Concilio Vaticano II.
Romano Guardini (Verona, Italia,1885 – 1968) ‹‹di origine italiana, non fu solo un geniale studioso di teologia e un grande docente universitario. Fu un direttore spirituale e aiutò tantissimi giovani a scoprire la loro vocazione nell’ambito della professione che stavano per intraprendere. Partecipò alla resistenza contro il nazismo e non fu un caso che fossero suoi allievi i due fratelli Hans e Sphie Scholl uccisi dai nazisti nel 1943››[4] . La sua opera di ricerca teologica mirava a sviluppare un’azione rinnovatrice del luogo della celebrazione liturgica, fondata sull’unione tra analisi architettonica e riconsiderazione teologica del rito della messa. Iniziativa che ‹‹l’ha portato a sperimentare soluzioni innovative sullo spazio sacro e sui suoi principali poli architettonici: in netto anticipo sulle formulazioni del decreto Conciliare››[5] . Un rapporto – asseriva Guardini – tra Arte e Liturgia che possa ‹‹diventare, col sostegno della grazia, sotto la guid
a della Chiesa, vivente opera d’arte dinanzi a Dio, con nessun altro scopo se non d’essere e vivere proprio sotto lo sguardo di Dio››[6].
In questi spazi il cristiano fa conoscenza di Dio presente e salvatore. Qui sperimenta ed esalta la Grazia di Dio attraverso questo rapporto inscindibile tra Liturgia e Architettura.
La sua ricerca si basava sullo studio dello spazio interattivo che, dalla sintesi tra tensione architettonica formale, tensione liturgica dinamica e assemblea, sviluppasse uno spazio sacro focalizzato sulla partecipazione dei fedeli alla celebrazione liturgica.
Il liturgista italo-tedesco sosteneva a proposito dello spazio sacro: ‹‹Il suo centro è l’altare, che rappresenta al contempo il centro del mondo, ogni altare in ogni chiesa››[7] .
Quindi, lo spazio della liturgia è il luogo dell’assemblea sacra ed in funzione di essa viene progettato e organizzato, e questa sua composizione, unitamente alla valenza simbolica degli elementi che la caratterizzano deve essere capace di proiettare il fedele nell’ascolto e nell’attesa del Cristo Risorto.
Un altro personaggio di spicco del Movimento architettonico liturgico tedesco è il grande architetto Emil Steffann che, pur se distaccato dal già citato – nei capitoli precedenti – Movimento Moderno e operando con una sua personalissima autonomia linguistica rinnovata, contribuì con le sue opere a modernizzare profondamente la concezione tipologica dell’architettura sacra, tanto da essere considerato, unitamente a
Dominikus Böhm, Rudolf Schwarze ad altri importanti architetti, “progettista di chiese”[8] .
La sua cultura liturgica – soprattutto quella assimilata attraverso la collaborazione diretta con Romano Guardini – sin dagli esordi si distinse per la particolare attenzione che rivolse verso la ricerca di nuovi significati (formali e simbolici) all’interno dei “codici” dell’architettura religiosa. Nel rapporto tra le componenti razionali e irrazionali che creano il fatto architettonico, Steffann teoricamente sosteneva che anche se le forme di un manufatto accendono una suggestione emotiva, non possono essere valutate nel campo dello spazio sacro come un semplice fenomeno plastico, poiché la loro massima e conquistata meta è nel sostenere funzionalmente e organicamente (e cioè non solo spiritualmente, ma anche praticamente) le richieste del tema liturgico.

Uno schizzo [9] centrato su questo problema fu di paragonare un edificio-chiesa, basato su una composizione stereometrica e caratterizzato da una tipologia planimetrica a tre navate, con una chiesetta di campagna definita da uno spazio sacro convergente sull
’altare. Su questo confronto egli si domandava quale delle due chiese fosse la più moderna (progetto redatto con Rudolf Schwarz nel 1936, per la realizzazione di una chiesa cattolica a Berlino-Lichterfelde).
Le innovazioni liturgiche attivate dal Concilio Vaticano II, come già si è detto, richiamano a ricreare nello spazio cristiano una partecipazione attiva e feconda del popolo di Dio alla celebrazione liturgica.
La riforma conciliare rivoluzionò la tradizione dello spazio cristiano conformando tipologicamente l’edificio-chiesa su una ecclesiologia cristocentrica, nella quale l’ecclesia non è solamente convocata, ma è soprattutto in comunione e protagonista.
La chiesa di Pianosi presenta dall’ottica del contenuto tipologico e delle sue espressioni spaziali, in rapporto a questa innovazione liturgica conciliare, in pieno caos formalistico sotto due aspetti:
Il primo è la non collocazione dei fuochi liturgici secondo un ordine “geometrico-spaziale” che, in rapporto sia alla disposizione dei banchi che configurano uno spazio semicircolare centripeto radiale che al suo esplicito tecnologismo esuberante, non permette di renderli visibili, fruibili e udibili da tutto lo spazio sacro;
Il secondo è che questa “actuosa partecipatio”, fondata sull’energia centripeta di un nuovo spazio cristiano unificato, compatto e raccolto, impone che la distanza tra celebrazione liturgica e protagonisti sia diretta, compiuta e viva [10] . Questa prossimità nello spazio liturgico della chiesa in questione è totalmente assente.
Per approfondire ancora di più nel dettaglio lo spazio liturgico di questa costruzione sacra aggiungo che, per realizzare quella qualità escatologica che è intrinseca nella Chiesa, c’è bisogno di un’altra componente spaziale, la quale, in questa espressione creativa, è stata totalmente trascurata: l’assialità spaziale, orizzontale diretta sull’abside (sostituito da un pilastro centrale di m.4,40) (e verticale diretta sulla cupola.

Vorrei un breve appunto fare sulla cupola: a prescindere da ogni considerazione sull’origine di quest’elemento architettonico, che ebbe, senz’altro, nell’architettura romana il massimo sviluppo, ma anche grande parte nelle forme architettoniche e decorative del quattrocento e del cinquecento rinascimentale (la cupola di Santa Maria del Fiore, che conferì immortalità al genio di Brunelleschi; la cupola di San Pietro di Michelangelo, morto prima che egli potesse vedere terminata quest’opera riconoscitiva di un’operosità straordinaria), e del seicento e settecento barocco (la grandiosa cupola di Sant’Agnese a Piazza Navona di Roma, caratterizzata dal fastoso, mosso e intrepido barocco romano), esso ha acquistato, con il passare del tempo, nella composizione architettonica un ruolo fondamentale, non solo a livello di valore formale, ma soprattutto di significato simbolico.
La sua conformazione evidenzia la realtà liturgica della Chiesa, la sua volta a calotta che “spacca” i soffitti realizza, con un passaggio virtuale, una comunione tra cielo e terra, tra la Chiesa pellegrina con quella celeste, frutto proprio del mandato trascendentale del “Mistero pasquale” che si compie sull’altare, e rimanda ad una escatologia, la quale proietta l’assemblea convocata verso un’attesa e una speranza d’incontro con l’Assoluto nel suo regno celeste, segnandone simbolicamente con questo anche il suo ruolo sacramentale.
La cupola doveva essere l’elemento caratterizzante la copertura dell’aula liturgica madre e non è possibile eliminarla o di più banalizzarla, come, purtroppo, è riscontrabile in questa realizzazione, e sostituirla con un soffitto cosiddetto a tenda a “varie” pendenze. Così facendo è caduta quella potenzialità liturgica indicata precedentemente e ha limitato, con la sua superficie “piana”, il popolo di Dio ad una religiosità terrena, “orizzontale”, e chiudendole anche la possibilità di vivere quella escatologia  “verticale”.
Ritornando alle due espressioni dello spazio, la centralità dinamica “intorno” all’altare, da un lato, e l’assialità dall’altro, che non sono in opposizione o in contrasto tra di loro, ma saldandole architettonicamente con i segni “fisici” dell’edificio-chiesa e le sue espressioni simboliche permettevano, se realizzate, alla chiesa di San Pio di creare uno spazio religioso capace di crescere nella fede e di percepire che Dio è presente nel “Mistero del Tempio” [11] .

b. Elementi fondamentali della celebrazione liturgica: funzionalità e partecipazione
La Costituzione conciliare sulla sacra liturgia, Sacrosanctum Concilium, recita testualmente:
‹‹Nella costruzione poi degli edifici sacri ci si preoccupi diligentemente della loro idoneità a consentire lo svolgimento delle azioni liturgiche e a favorire la partecipazione attiva dei fedeli.›› (SC 124).
La riforma conciliare promuove due finalità principali: la funzionalità in ordine alla celebrazione liturgica e la partecipazione attiva dei fedeli, posti non come formule meccaniche ma come intuizioni liturgiche che, accompagnate dallo Spirito, porteranno a vivere la celebrazione Eucaristica nel pieno del suo significato. La prima, connessa in un rapporto tra Dio e gli uomini, impone un ordine architettonico: un’aula sacra luminosa, bella, artisticamente pregevole, invitante, priva di ostacoli tecnici (divisori, colonne, muri, ecc.), dove la sua conformazione, strutturale e spaziale, è progettata in vista di un’assemblea celebrante, gerarchicamente ordinata, che proietta se stessa nella formatività espressiva dell’edificio di culto, generandolo, plasmandolo e creando con esso un legame profondo: ‹‹La celebrazione della liturgia cattolica è tutt’altro che indifferente all’architettura e, viceversa, l’architettura di una chiesa non lascia indifferente la liturgia che vi si celebra.›› (CEI, L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica, 1996). Ed in questa prospettiva e nel rispetto dell’assemblea convocata l’esigenza di funzionalità acquista il proprio significato: funzionalità dell’edificio-chiesa.
Mentre per realizzare la seconda, la partecipazione feconda, viva dei fedeli, occorre: avere un posto, sentirsi a proprio agio, e come innanzi affermato, vedere i vari fuochi liturgici (Sede del Presidente, Altare, Ambone, Fonte Battesimale, Tabernacolo), ascoltare le letture, i canti, le preghiere, ecc.
Oggi la Chiesa ha più chiara consapevolezza della delicata gestione di spazio in cui vivere il Mistero di Cristo grazie alle Note della CEI (Conferenza Episcopale Italiana), in particolare la Nota pastorale su “La progettazione di nuove chiese” del 18 febbraio 1993 e quella su “L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica del 31 maggio 1996”, elaborate dalla Commissione Episcopale per la Liturgia. Entrambe rivelano un impegnativo cammino di rinnovamento della progettazione e configurazione del nuovo spazio sacro, e lo svilupparsi nella fase successiva del suo arredo e della sua utilizzazione. La progettazione o l’adeguamento delle chiese non si può considerare come un’esecuzione discrezionale né lo si può sostenere secondo modalità del tutto soggettive, perché, grazie all’applicazione di esse, le chiese ritrovano la specifica permanente destinazione.
L’aula dell’assemblea contribuisce con il suo specifico linguaggio a potenziare, a unire e a coinvolgere la celebrazione e, di conseguenza, non può assume caratteri dettati da un soggettivismo estetico e religioso o da una poetica personale, anche se innovativi e originali. La scelta della forma, del modello architettonico, dei materiali, dello spazio liturgico, ha come fine di manifestare la realtà profonda della Chiesa: la chiesa, architettura come “icona”.
L’aula liturgica della chiesa di San Pio non è in grado di favorire la realizzazione di un’assemblea unitaria (non è priva di divisioni al suo interno con i suoi 22 archi radiali, che rappresentanol’originalità di quest’opera, e i setti dell’ingresso, che ostacolano anche la visibilità) e

la partecipazione attiva di tutti i fedeli all’evento liturgico. Quest’ultimo è ridotto a un funzionalismo liturgico privo anche di un programma iconografico che aiuti, anche attraverso una emozione artistica, a contemplare l’invisibile. L’unica, sempre a parere mio, dove si realizza una sincronia tra dimensione simbolica religiosa e arte è la cappella del Santissimo, le cui pareti, affrescate artisticamente, comunicano simbolicamente nel rapporto umano-divino la cultura e la sensibilità religiosa delle generazioni passate.

Certamente, entrando in questa mega aula palestrata (in grado di ospitare 7200 partecipanti), bellissima architettonicamente, ma non adatta ad una chiesa, si percepisce di essere un fedele passivo, pronto ad assistere ai vari riti svolti in modo esclusivo da un clero, in un luogo rialzato, separato e ad esso solo riservato, come un palcoscenico, illuminato da una super vetrata, in cui si concentrano tutti i segni liturgici, ridotti infine a pochi incomprensibili simboli, annullando totalmente la “nuova” impostazione della liturgia basata sulla partecipazione assembleare e comunitaria. Anche la dimensione non può favorire la comunione organica dell’assemblea.
Quando ci si trova dinanzi a extra assemblee l’immagine di una famiglia intorno alla mensa comune decade, perché l’interazione o la koinonia è condizionata dalla distrazione e dalla confusione, fenomeni normali per questo tipo di assemblee.
Così, anche nel vedere la sua porta d’ingresso in bronzo cadono tutti quegli studi e pubblicazioni di testi religiosi, teologici e biblici che riassunti affermano: la porta d’ingresso non deve essere un semplice vano di passaggio, bensì un varco che dia, attraverso il suo linguaggio formale, la speranza che al di là di esso sia possibile trovare il luogo che salva il mondo; ‹‹Allora Gesù disse loro di nuovo: In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore.›› (Gv 10,7). La sensazione che si avverte, attraversando questa porta, è di entrare in un palazzetto dello sport.

Conclusioni
È fuor di dubbio che il risultato di questo organismo architettonico religioso conferma che non basta per un architetto la propria cultura architettonica per realizzare ed edificare una chiesa, in quanto la sua dimensione individuale del fare architettonico ridurrebbe la vera significazione di questa, ma è necessario che egli “subisca” una esperienza viva, concreta di fede cristiana, che gli permetterebbe di vivere gli spazi di tale esperienza e comprendere la vera dinamicità del grande Mistero liturgico e la qualità simbolica e formale della predisposizione architettonica, per poter esprimere nel profondo e attraverso la sua professionalità il vero messaggio cristiano dell’architettura delle chiese ed evitando di ripetere acriticamente gli schemi preconciliari cristallizzati.

Note Bibliografiche
1.  Bruno Zevi, “Italia senza chiese” in Cronache di architettura, vol. 7, sec. ediz., Editori Laterza 1978, p.323.
2.  Cfr., Sandro Benedetti, Architettura Sacra oggi, Gangemi Editore 1995, p.198.
3.  Bruno Zevi, op. cit., p. 323.
4.  Giacomo Grasso , Dove l’architettura ha dato alla chiesa il meglio, tratto dalla rivista: CHIESA-OGGI, architettura e  comunicazione, N° 15, Di Baio Editore, Milano 1995, p. 36.
5.  Sandro Benedetti, Architettura Sacra Oggi, op.cit., p. 120.
6.  Romano Guardini, Lo spirito della liturgia, Brescia 1980, p. 86.
7.  Nuova storia della Chiesa; R. Aubert, J. Hajjar, J. Bruls, S.Tramontin, La Chiesa nel mondo, vol. 5/II, Marietti Editori, Torino 1979, p. 98.
8. Cfr., Adriano Cornoldi , AA.VV., L’architettura dell’edificio Sacro, Officina Edizioni, Roma 1995, p.14.
9.  Gisbert Hülsumann (a cura di), Emil Steffann, Akademie der Architektenkammer Nordrhein – Westfalen und Deutsche Unesco Kommission, Bonn 1984, p. 54.
10.  Cfr. ,Gianluca Frediani, Le Chiese, Editori Laterza 1997, p.29.
11.  Francesco Pio Tamburini, Lo spazio celebrativo: eredità e progetto, cit. in AA.VV., op. cit., III Convegno Regionale di Liturgia,  Nola 1995, C.E.C., p.31

Abeti Maurizio
Graduate in architecture
Independent researcher
Via SottoTen. Gaetano Corrado  n.29 - 83100 Avellino(Italy)
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maurizioabeti@gmail.com
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