In risposta a“Architetto non essere egoista!”

Si apre il dibattito in merito all’Editoriale pubblicato su CHIESA OGGI architettura e comunicazione n° 52.

Prof. Don A. Santantoni

"Indispensabile e insostituibile risulta la mediazione del liturgista il quale, non digiuno delle cose dell’arte, saprà al meglio indicare all’architetto lo spirito dei misteri che l’edificio dovrà accogliere e mediare."
“La mia chiesa dev’essere…” La mia chiesa! E l’architetto si scopre più che un artista: un teologo, un demiurgo, un creatore.Non ha quasi mai studiato teologia, men che meno liturgia. Non conosce la Sacra Scrittura né la storia dei riti e dell’influenza di questi sulla storia delle forme architettoniche: un’ignoranza di cui il tecnico alle prime armi si accorge ben presto, cercando di rimediare con un’applicazione frettolosa e lodevole ma il più delle volte insufficiente o chiedendo lumi al committente. Ma intanto il progetto cresce, si impone all’amore del suo creatore, lo entusiasma, gli prende la mano, lo persuade e gli appare come un’estensione della sua personalità, un prolungamento della sua percezione di sé, un frutto privilegiato del suo genio creativo. Sempre più difficile diventa il confronto con lui, essendo egli completamente innamorato della sua creatura già nella fase di gestazione. Alla base di questa difficoltà è una specie di imperativo categorico della corrente concezione estetica del prodotto architettonico, per il quale ogni nuova realizzazione deve costituire un prototipo, un “mai visto”, e forse un mai ripetibile. Inoltre la “sua” chiesa l’architetto tende a vederla come un unicum, in cui tutto si tiene, perché tutto è finalmente rapportabile a lui: costruzione, coperture, pieni, vuoti, arredi fissi e mobili, panche, suppellettili, spazi penitenziali, cappelle accessorie (feriale, della Madonna, di qualche santo, del SS. Sacramento), via crucis, vetrate, illuminazione, mosaici, dipinti, statue, ecc. Ciò, ammesso che sia possibile, non manca di qualche vantaggio, ma ha il torto di presentare assai maggiori svantaggi e rischi di vario genere. Innanzi tutto quello dello scarso realismo e della nessuna continuità con la tradizione. Non esistono nella storia meno recente esempi di questo ordine di cose. Col tempo, aggiustamenti successivi e ripetuti, interventi di arricchimento e di correzione si sono sempre resi indispensabili. Non sono neppure mancati importanti modifiche in corso d’opera, per cui il progetto d’un sommo è stato completato da un altro, forse da un altro ancora. Ciò poteva avere molte plausibili ragioni, prima fra tutte la durata e i tempi dei lavori che potevano durare decenni, forse secoli. Cambiando i tempi, cambiavano gli uomini, i gusti, gli stili. E ognuno lasciava la sua impronta, il suo segno, la sua firma. E la chiesa diventava così la testimone privilegiata della mutevolezza e della precarietà delle vicende umane e dell’uomo stesso e delle sue opere. Se non bastò neppure il nome e il genio di Michelangelo a garantire l’immutabilità del suo progetto della basilica di S. Pietro e della sua cupola! Tutto ciò dovrebbe indurre ogni artista a una maggior umiltà di fronte al compito di pensare, progettare e costruire una chiesa. Questa è sempre, per natura sua e per vocazione, un’opera Prof. Don A. Santantoni di chiesa, dell’Ecclesia di Dio.

L’aula della Wallfahrtskirche di Neviges (Germania), progettata da Gottfried Böhm.

Doni, sensibilità, competenze, carismi diversi devono concorrere a costruire la chiesa-casa della comunità, per la quale è concepita e pensata e voluta. Più ancora, lo sforzo di ogni vero demiurgo dello spazio, dovrebbe essere quello di dar vita a uno spazio “vivo”, capace di rinnovarsi e trasformarsi, adeguandosi alle perenni mutazioni della storia con le sue nuove domande, risposte, esigenze, mode e gusti indotti dagli innumerevoli cicli della storia e delle culture. Ecco dunque delinearsi il processo che dovrebbe accompagnare ogni tentativo di edificare una nuova domus Dei et ecclesiae. Ricevuti la proposta e il mandato, o anche una volta deciso di partecipare a un concorso per l’assegnazione di un incarico, l’architetto dovrebbe prima informarsi, specie se alla sua prima esperienza, sulla natura dell’edificio (diversa da ogni altro fabbricato) e delle sue componenti, della sua storia e della normativa canonica vigente. Quindi dovrà prendere contatto col committente e con tutti coloro che questi vorrà affiancargli (sociologi, urbanisti, consiglio pastorale) perché nessun contributo utile vada perduto. Se è credente dovrebbe nutrire di preghiera il suo lavoro, richiamando alla memoria le sue esperienze: le positive per trarne spunto e conforto, le negative per riconoscerle e fuggirle, evitando di ripeterle. Più complesso il discorso per quegli artefici dello spazio che non aderiscono intimamente al contenuto di ciò cui dovranno dar vita. In loro è ipotizzabile una probabile ignoranza del mondo liturgico e simbolico cui pure dovranno dare espressione,come pure una certa difficoltà a entrare in quel mondo per interiorizzarlo e farlo proprio. Da qui la necessità di un approfondito dialogo tra committente e progettisti, primo fra tutti l’architetto: un dialogo che si nutra di problematiche sempre più approfondite e complesse, che tenga conto non solo dei canoni estetici cui l’architetto aderisce, ma soprattutto dei valori teologici e simbolici inerenti alla materia da trattare. Un capitolo particolare sarà aperto sui temi di contrasto tra le parti. È facile prevedere opinioni diverse sia su argomenti di natura estetica sia su interessi di ordine pratico (per es. economico). Più di una volta avverrà che l’architetto, tutto teso alla creazione del “suo” archetipo (suprema aspirazione per molti di loro) mal si adatterà a ridimensionare le proprie ambizioni per adeguarsi alle esigenze di bilancio o per rispettare le preoccupazioni liturgiche del committente, il quale neppure lui spesso ha idee molto chiare e sembra attendere lumi dal professionista. Indispensabile e insostituibile risulta allora la mediazione del liturgista il quale, non digiuno delle cose dell’arte, saprà al meglio indicareall’architetto e al committente lo spirito dei misteri che l’edificio dovrà accogliere e mediare. Un’altra ragione di contrasto è spesso originata dall’ambizione d
ell’architetto desideroso di firmare lui stesso non solo l’architettura, ma anche l’arredo, dall’altare ai candelieri, dai paramenti alle icone, dalle vetrate ai confessionali. A meno di trovarsi di fronte a un ingegno capace di spaziare tra le diverse espressioni artistiche (Le Corbusier, Matisse,…), ciò potrebbe risultare una grave causa d’impoverimento e di appiattimento di tutto lo spazio. In definitiva, troppe volte dietro la formula “la mia chiesa” si nasconde più di un pizzico di presunzione. La chiesa non può essere opera d’uno solo. Ciò che nasce per essere della chiesa, non può che essere l’opera di tutta la Chiesa.
Rev. Prof. Don Antonio Santantoni

 

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