Il proto Santuario degli Zingari a Roma

Il proto Santuario degli Zingari a Roma

Un luogo di preghiera a cielo aperto, un altare attorniato da simboli emergenti dalla terra, in prossimità del Santuario del Divino Amore. Dedicato al protomartire cristiano Zeffirino Giménez Malla, vittima dei campi di concentramento nazisti, è stato realizzato da gitani, per gitani. Una chiesa coperta dalla magnificenza della volta celeste.

Era il 25 gennaio 2003. Mi trovavo nel Santuario di Maria Weissenstein, nell’alta Val Gardena, per tenere un corso all’Associazione di artisti “Unika”, quando mi avvicinò Mons. Bruno Nicolini, assistente ecclesiastico della Missione Cattolica Rom e Sinti. Aveva in mente di realizzare in Roma un “Santuario degli Zingari”. Era salito lassù, in quel
remoto Santuario della sua terra natia, per trovare ispirazione. Ne parlammo velocemente, l’idea mi piacque, ci
demmo appuntamento a Roma in Cancelleria. Nel girò di pochi giorni convocò i collaboratori della Missione con alcuni zingari interessati all’iniziativa. La direzione artistica venne affidata all’artista rom Bruno Morelli, con la mia consulenza estetico-teologica. L’elaborazione tecnica fu di Angela Pizzuti e Daniele Spano, rispettivamente architetto e scenografo. I lavori costruttivi furono eseguiti dall’impresa romana di Erminio Marinelli. Per la realizzazione del grande gruppo bronzeo la “Domus Dei” mise a disposizione i propri laboratori di Albano Laziale. Numerosi furono gli incontri e
i sopralluoghi, onde coinvolgere adeguatamente il mondo ecclesiastico e quello gitano. Nume tutelare di tale spazio cultuale a cielo aperto doveva essere il protomartire gitano Zeffirino Giménez Malla, beatificato da Giovanni Paolo II il
4 maggio 1997. Protosantuario e protomartire venivano congiunti per dare vita ad un luogo di preghiera gitano.

L’altare è posto al centro di un sistema di raggi che si fa immagine della ruota.

Per il “Santuario degli Zingari” venne scelto il comprensorio di “Santa Maria del Divino Amore”, perché caro alla pietà popolare e sito in aperta campagna. Dal Rettore, Mons. Pasquale Silla, si seppe che da tempi lontani gli zingari ebbero la consuetudine di pellegrinare verso tale Santuario, come dimostra l’oleografia ottocentesca esposta nella Casa del Pellegrino . Inoltre, ogni 4 maggio, ricorrenza liturgica del beato Zeffirino, la comunità Rom e Sinti si ritrova al “Divino Amore”. Pertanto, conferma il Rettore, “rispettando questa tradizione, il Santuario si è reso disponibile ad accogliere le iniziative pastorali della Missione […] ed ora apre il suo terreno ad uno spazio sacro, dove Rom e Sinti possano esprimere pubblicamente la propria fede e la propria appartenenza alla Chiesa”. Stabilito il luogo di erezione e avuto il consenso dal Card. Ruini, Vicario di Sua Santità per la Diocesi di Roma, iniziarono i lavori. L’impresa non fu facile, tanto sul fronte progettuale, poiché occorreva usufruire dell’immaginario zingaro per un luogo cultuale, quanto su quello economico, poiché era opportuno il concorso dei membri della comunità zingara. Tuttavia, il 26 settembre 2004, il Vicegerente di Roma, Mons. Luigi Moretti, dedicò solennemente il luogo all’uso liturgico, benedicendo altare, ambone, sede, oltre che crocifisso, gruppo scultoreo e steli commemorative. Convennero all’occasione, con gli zingari cattolici di diverse etnie, rappresentanti delle autorità civili e religiose, cappellani dei nomadi e operatori della Caritas , oltre che membri rom appartenenti alla confessione ortodossa e alla religione islamica. Anche Giovanni Paolo II, di venerata memoria, volle essere presente formulando in un telegramma “voti augurali affinché eredità cristiana di rom e di sinti tramandata et intensamente vissuta contribuisca at accrescere concordia et solidarietà nell’amore del Signore”. Fu una celebrazione commovente, dove alla suggestione offerta dal romantico tramonto romano, si unì quella delle nostalgiche musiche gitane. Nel ritmo del vento e delle musiche, con simbologie nomadi e cristiane, gli zingari cattolici consacravano quel luogo naturale a Santuario, invocando la protezione di Dio e l’intercessione di Zeffirino. Per la prima volta si inaugurava un Santuario progettato da zingari per gli zingari in onore del protomartire zingaro Zeffirino, quale primizia dei cinquecentomila zingari eliminati nei lager . “Coloro che sono stati forse troppo emarginati, incompresi e non accolti – disse durante la celebrazione Mons. Moretti – possono trovare in questo luogo il segno dell’accoglienza da parte del Signore e della Chiesa.L’offerta di uno spazio, di un altare, di un ambone a un popolo, che per sua natura è nomade, vuole essere […] un richiamo affinché l’esperienza della fede nel Signore non si riduca a sola esperienza interiore, che tocca i sentimenti e si esaurisce nella sfera del privato”. L’insolita chiesa a cielo aperto ha per pavimento la madre terra, per cupola la volta celeste e per orientamento il corso solare: spettacolari cifre del divino riprese dal genio artistico e dalla religiosità gitana. Da questo luogo sacrale, la “Madonna del Divino Amore” presenta ai credenti un martire della guerra civile spagnola che ostentò dinanzi agli sgherri la corona del rosario; un martire che venne fucilato perché tentò di proteggere un sacerdote, gridando: “Aiutami Vergine, tanti uomini contro un innocente!”.

Due cippi in tufo lavorato segnano l’accesso al luogo.

Il sistema simbolico

La cultura gitana è originalmente estranea al cristianesimo, poiché proveniente dall’India. Agli inizi del 1400, sotto la spinta dei Turchi, gli zingari arrivarono nei Balcani, raggiungendo Roma nel 1423 in occasione del Giubileo indetto da Martino V. Per coloro che accolsero il cristianesimo, nella confessione ortodossa e cattolica, l’abituale nomadismo si tradusse anche in devoto pellegrinaggio. Rientrano nelle cronache i pellegrinaggi verso il Santuario di Santiago de Compostela e più recentemente quelli in maggio alle Saintes-Maries-de-la-Mer alla foce del Rodano e quelli a Lourdes in settembre. In questo contesto si inseriscono anche i pellegrinaggi al “Divino Amore”. La configurazione adottata per tale Santuario desume tanto dai simboli quanto dai contenuti dell’immaginario gitano, operando la loro risignificazione in ottemperanza della liturgia cattolica e nel contesto del “Divino Amore”. Diversamente dal mondo occidentale, che ha indebolito il linguaggio simbolico riducendolo a decorazione estetica, per le culture tradizionali i simboli sono ancora pregnanti, così daindicare il fondamento delle cose e la sacralità del mistero. Rispettando la tradizione nomade il “Santuario degli Zingari” è pensato all’aperto; sancendo il pellegrinaggio devozionale viene collocato nel comprensorio del “Divino Amore”; enfatizzando l’appartenenza etnica è dedicato al martire Zeffirino; rievocando l’eccidio nazista segnala il mezzo milione di vittime nei campi di sterminio. Il beato Zefirino, lo spazio aperto, il “Divino Amore” riuniscono in tal modo consuetudini storiche, devozione mariana, ingiusta oppressione, testimonianza eroica. Tale contenuto ideologico fonda l’ordito progettuale, dal momento che l’architettura è linguaggio. Nelle forme spaziali si dialettizzano significanti e significati , al fine di impostare un habitat “dimensionato” sugli occupanti e sulla destinazione. Gli elementi iconici del “Santuario degli Zingari” sono il cerchio-ruota , l’ albero-simulacro , le pietre-cippi . Questi archetipi simbolici esprimono immaginario, girovagare, sacralità, corrispondendo alle esigenze gitano-religiose. Essi hanno significazioni ambivalenti e ridondanti che desumono da simboli di culture a diretto contatto con la natura. I significanti della tradizione zingara vengono così risignificati nella tradizione cristiana, così da favorire l’attiva partecipazione dei fedeli.

Vista generale del luogo di culto.

Il cerchio-ruota

Nell’immaginario zingaro il simbolo della ruota rimanda alla carovana, così da indicare l’errabondare nomade di luogo in luogo. Il cerchio, invece, indica l’accampamento, così da ricordare i momenti di sosta nei vari luoghi. Il cerchio è altresì la proiezione del cielo che fa da cupola alla terra, così da evidenziare il condizionamento delle congiunture astrali e, in termini cristiani, della provvidenza divina. La ruota rappresenta poi il movimento ciclico del divenire mortale, ma anche il dispiegarsi salutare dell’azione divina, così da convertire lo scorrere temporale in dimensione spirituale. Nel sistema simbolico la ruota si correla al cerchio. Se, da una parte, la ruota mostra l’indefinito divenire della contingenza materiale, che è contrassegnato dalla caducità mortale, dall’altra, evidenzia l’infinito flusso della Trascendenza divina, che è riscontrato dall’anelito religioso. Ne deriva un transfert di significati. Dalla ruota della fortuna si passa alla ruota della provvidenza; dalle ruote astrologiche alla sfera soteriologica; dal sole cosmico ai cerchi divini; dal veicolo gitano al carro d’Elia. Tanti elementi che si distinguono e si confondono fino a trascendersi nel cerchio-ruota . Nel “Santuario degli Zingari” i raggi della ruota indicano i punti cardinali e la rosa dei venti, onde orientare il viaggio verso il Signore. La forma di cerchio ricorda altresì l’accampamento, in cui rinfrancarsi spiritualmente prima di riprendere il viaggio verso l’eternità. Il cerchio-ruota è allora anche “rosone” cristologico. Come nelle cattedrali medievali esso trova perno in Cristo. L’altare del Santuario è in figura di “mozzo” della ruota e di “fuoco” dell’accampamento. Esso rappresenta il centro del corso cronologico, della salvezza cristiana, della ricapitolazione definitiva. In tal modo il migrare di terra in terra si trasforma in pellegrinaggio verso la meta del cielo e l’accamparsi di volta in volta è pregustazione del banchetto celeste.

L’ambone, sul cui sostegno sono allineati i
simboli degli Evangelisti.

L’albero-simulacro

L’albero è simbolo dovizioso che si fa metafora umana. Avendo figura verticale, indica l’innalzamento dalla terra al cielo. Avendo rinnovabile vitalità, prelude la vittoria della vita sulla morte. Sia il ciclo annuale di morte e rinascita, sia la struttura biologica di foglie, fiori e frutti, offrono analogie con il duello tra vita e morte che caratterizza l’esistenza umana. Il rapporto tra albero e uomo è risaltato dalla simbologia pitagorica della “y”. Essa figura un albero con due rami che rappresentano i sentieri del bene e del male sui quali deve dirigersi la scelta personale. Nel contesto cristiano l’albero è simbolo polivalente della resurrezione di Cristo. In esso si coniugano l’albero del bene e del male collocato nel paradiso terrestre, il tronco di Iesse profetato da Isaia (cf Is 11,1), la croce di Cristo conficcata nel luogo della sepoltura di Adamo. Tali simbologie messianiche descrivono l’“albero della vita” nello svettare i rami verso il regno dei cieli e nell’affondare le radici verso il regno dei morti, per cui segnalano il passaggio dal paradiso perduto al paradiso riconquistato. La simbologia biblica del tronco di Iesse coinvolge anche Maria che è il ramo, mentre il Messia è virgulto. Nel “Santuario degli Zingari” tali elementi simbolici risuonano sinfonicamente per enfatizzare la figura di Zeffirino. L’ albero-simulacro è allora tronco di Iesse che svetta verso il cielo annunciando Cristo; è piccolo seme che in Cristo è diventato arbusto rigoglioso; è tralcio innestato alla vera vite che Cristo nutre con linfa vitale; è albero piantato lungo il fiume che è irrorato da Cristo; è cedro del Libano che non teme le folate di vento poiché radicato in Cristo; è ulivo che in Cristo annuncia pace agli “uomini di buona volontà”; è, soprattutto, albero della croce che indicando la morte e resurrezione di Cristo, ricorda la perenne vittoria della luce sulle tenebre e della vita sulla morte. Mutuando la “y” pitagorica, Zeffirino fuoriesce tra due grandi rami, onde confermare la simbologia biblica e la tradizione cristiana dell’“ad Iesum per Mariam”.

Oleografia ottocentesca del Santuario del Divino Amore che mostra la tradizione dei pellegrinaggi gitani.

Le pietre-cippi

La pietra lavorata dall’uomo e innalzata verso il cielo assume la simbologia ambivalente di sfida e baluardo. Il circolo di pietre determina invece un luogo sacrale, la configurazione del cosmo, l’ombelico del mondo. Nel contesto biblico le pietre hanno valenza tanto positiva quanto negativa. Positivamente ricordano l’altare che Giacobbe eresse con dodici pietre indicanti le dodici tribù d’Israele, oltre che la pietra a sostegno dell’Arca in Gerusalemme e la pietra sui cui Gesù conferì a Pietro il primato. Negativamente rievocano le lapidazione dei condannati, come quella di Stefano che andò in estasi mentre moriva per Cristo, e le tentazioni di Gesù, che respinse l’invito di Satana a trasformare le pietre in pane. Si devono ricordare due singole pietre che sono simbolicamente riferite a Maria: la pietra sigillata che secondo un
‘aggiunta apocrifa non impedì ad Abacuc di rifocillare Daniele (cf Dn 6,18) e la pietra rotolata dal monte che nel sogno di Nabucodonosor, interpretato da Daniele, divenne grande come una montagna (cf Dn 2,34-35). Entrambe furono riferite alla maternità verginale di Maria. Nel “Santuario degli Zingari” il simbolo della pietra è adottato in senso materico e numerologico. Dinanzi al sacrario, ad perpetuam rei memoriam del martirio di Zeffirino e dell’olocausto nazista, sono posti due cippi in tufo semilavorato. Nel segno di Maria e della Chiesa, di cui la Vergine è immagine, sul limitare della radura sono eretti due monoliti a modo di stipiti. Nei segni cosmici dello zodiaco, dei mesi, delle ore, oltre che nei segni religiosi delle tribù d’Israele, degli apostoli, delle feste liturgiche, sono posate in cerchio dodici blocchi di tufo grezzo. Nel segno di Cristo, pietra scartata ed ora pietra angolare, al centro del cerchio è fissato l’altare. Nel segno della santità, le pietre si fanno monte su cui è elevato il martirio di Zeffirino.

I ricordi storici

Il “Santuario degli Zingari” è mausoleo che ricorda le oppressioni subite dalle varie etnie gitane, esemplandole nella figura di Zeffirino e nelle vittime dell’olocausto. Quattro steli tufacee conferiscono al luogo santuariale l’aura memoriale. A destra, sulla salitella d’entrata, in ossequio alla tradizione edificatoria, viene presentata la dedicazione del luogo cultuale. Nella lapide in coccio fissata sul monolito è stilata, con l’eleganza dell’incerto e dell’arcaico, questa lunga epigrafe a modo di fasto:

Zeffirino Gimenez Malla (1861-1936) Gitano Martire

Dopo una giovinezza nomade si stabilì con la moglie Teresa a Barbastro, dove esercitò con grande onestà il commercio di equini, stimato da tutti, come uomo di pace. Profondamente religioso, aderiva a diverse confraternite, dedicandosi con predilezione ai più poveri e moribondi. Durante la guerra civile spagnola, fu arrestato per aver preso le difese di un sacerdote…
Condannato alla fucilazione, morì con il rosario in mano gridando "Viva Cristo Re!".
Il 4 maggio 1997 S.S.Giovanni Paolo II lo proclamò Beato.
"Morì per la fede in cui aveva vissuto… dimostrando che la carità di Cristo non conosce limiti di razza e di cultura"

L’iscrizione dedicata a Zeffirino
La scultura del Beato Zerrifino Gimenez Malla.

Salendo di poco, a sinistra, un’altra stele di forte suggestione scultorea, accosta al martirio di Zeffirino le vittime dell’olocausto. Una croce ferrea con filo spinato e una cortina di mattoni pavimentali reliquiano i lager . Il testo dell’epigrafe è stralciato dalla testimonianza del cardinale Giuseppe Beran, che condivise con gli zingari la detenzione a Dachau:

in
memoria dei 500.000
zingari, donne, uomini,
bambini, vittime del
genocidio nazista.
“… sono morti pregando e
perdonando, lasciando fluire
il loro sangue cristiano
nelle vene del corpo mistico
di cristo per un accrescimento
della grazia in tutta
la cristianità”.

Alle soglie del sacro luogo sono due monumentali stipiti in tufo dove si ricorda l’attenzione della Chiesa verso gli “ultimi”. A modo di grido, su due lapidi in coccio, sono stilate una citazione di Paolo VI ed una di Giovanni Paolo II.
Sullo stipite di destra si legge:

voi nella chiesa
non siete ai margini,
voi siete nel cuore della
chiesa

aaaaaaaaaaaa Paolo VI

Sullo stipite di sinistra si legge:

non più discriminazioni, esclusioni,
oppressioni, disprezzo dei poveri e
degli umili

aaaaaaaaaaaaaaa Giovanni Paolo II

L’ascesa al sacro luogo gitano si compie dunque nella memoria del martirio e dell’olocausto, ricordando che la Chiesa accoglie “gli affaticati e oppressi” di ogni popolo e nazione.

Lo spazio sacro

Architettonicamente e contestualmente il “Santuario degli Zingari” assume sapori ancestrali e magici a guisa di stonehenge . Su un ermo colle, immerso nella campagna romana, dove pareti tufacee disegnano il contorno di prati cangiati dall’esposizione solare, il santuario rispetta i paradigmi di un cenacolo. È «magnum et stratum», cioè ben dimensionato e decorosamente rivestito, oltre che appartato (cf Mc 14,14-15). Il raccoglimento è dato dalla campagna silenziosamente brulla, i tappeti sono tessuti d’un manto erboso consegnato dalla natura. Nel suo lieve elevarsi sui declivi circostanti ricorda altresì il Calvario, confermato dalla lignea croce che s’innalza sull’area cultuale. I materiali impiegati mostrano la mano dell’uomo nel rispetto della natura circostante. Tutto dice continuità con il contesto. I blocchi di tufo, pressoché grezzi, si assimilano al paesaggio derivando da esso, mentre le lastre in travertino, appena levigate, provengono dal circondario romano. Le rudimentali terrecotte delle iscrizioni e dei rilievi desumono, come in antico, dall’umile terra. La croce lignea è appena sbozzata. Unica concessione alla cultura evoluta e, nella fattispecie, all’artigianato gitano, è il simulacro di bronzo, a modo di pala, e il piatto di rame, a modo di sacrario. Due elementi che pur differenziandosi impattano positivamente, poiché nell’assunto materico hanno valore apotropaico e arcano, mentre in quello contenutistico cosmologico e cristologico. Culto e cultura enfatizzano dunque l’ambiente e incentivano la carità, dando origine ad un installazione di grande suggestione sacrale. Seppure a cielo aperto nel “Santuario degli Zingari” coesistono tutti gli elementi atti a determinare un luogo cultuale: sagrato, portale, presbiterio, aula. Il sagrato , che costituisce il diaframma tra il luogo del pellegrinaggio e quello della preghiera, è dato dal vialetto in terra battuta che sale verso la radura in cui s’eleva il Santuario. Tale area è contrassegnata dalle due steli memoriali. Il varco di accesso è determinato dai due monoliti di tufo a guisa di stipiti. È icona di Cristo e della Chiesa che invita a varcare le soglie del sacro recinto. Introduce sacramentalmente ai divini misteri, indica sinteticamente il luogo cultuale, narra iconograficamente gli eventi religiosi, prelude metaforicamente la soluzione escatologica. Il sistema circolare, che descrive il recinto, contiene l’ area celebrativa segnata sul terreno dalle marcatur
e in acciottolato. Queste orientano l’ingresso nella direzione est-ovest e dilatano la partecipazione in quella nord e sud. Si tratta di un’area architettonicamente separata che si contraddistingue in tre poli cristologici – altare, ambone, sede – ed è sormontata dal crocifisso. L’ altare costituisce il fulcro dell’intero spazio circolare dal quale s’irradiano i raggi che orientano il cammino dei fedeli. È ara in cui Cristo si offre quale vittima sacrificata e sommo sacerdote; è mensa a cui Cristo invita i suoi discepoli per la santa cena nel suo aspetto di memoria e memoriale; è sepolcro di Cristo che ne ricorda la morte e resurrezione. L’ ambone trova collocazione in un cerchio acciottolato sito nel raggio a nord-est. È la mensa della parola, laddove si annunciano e si spiegano le Scritture, affinché i fedeli crescano nell’ intellectus fidei . La sede è sita al limitare della radiale nord. È il segno della presidenza da dove il celebrante, in persona Christi , presiede la comunità riunita in santa assemblea. L’ aula , sotto la volta del cielo, ospita i fedeli sul lato sud in una gradonatura a forma di cavea semicircolare; è in opposizione alla sede, così da permettere un dialogo frontale. La croce troneggia sull’area ed è infissa su un acciottolato circolare a sud-est in opposizione all’ambone, onde coniugare l’annuncio della Parola al sacrificio di Cristo. Sul lato est troneggia il gruppo scultoreo dedicato al beato Zeffirino. I vari punti cultuale sono realizzati con rigorosa unità stilistica e suggestiva diversità iconografica, onde assimilare Cristo-parola, Cristo-sacrificio, Cristo-presidente. Il complesso traduce la sacralità sincretica della cultura gitana in forme proprie alla liturgia cristiana, così da risignificare l’immaginario tradizionale e, nel contempo, da favorire il senso di appartenenza.

Dall’idea al luogo del santuario

Era il 25 gennaio 2003. Mi trovavo nel Santuario di Maria Weissenstein, nell’alta Val Gardena, per tenere un corso all’Associazione di artisti “Unika”, quando mi avvicinò Mons. Bruno Nicolini, assistente ecclesiastico della Missione Cattolica Rom e Sinti. Aveva in mente di realizzare in Roma un“Santuario degli Zingari”. Ne parlammo velocemente, l’idea mi piacque, ci demmo appuntamento a Roma in Cancelleria. Nel giro di pochi giorni convocò i collaboratori della Missione con alcuni zingari. La direzione artistica fu affidata all’artista rom Bruno Morelli, con la mia consulenza estetico- teologica.L’elaborazione tecnica fu di Angela Pizzuti e Daniele Spano, rispettivamente architetto e scenografo. I lavori costruttivi furono eseguiti dall’impresa romana di Erminio Marinelli. Per la realizzazione del grande gruppo bronzeo la azienda Domus Dei mise a disposizione i propri laboratori di Albano Laziale.

La celebrazione della Santa
Messa all’inaugurazione del
nuovo spazio culturale.
Nume tutelare di tale spazio cultuale a cielo aperto doveva essere il protomartire gitano Zeffirino Giménez Malla, beatificato da Giovanni Paolo II il 4 maggio 1997. Fu scelto il comprensorio di “Santa Maria del Divino Amore”, in aperta campagna. Dal Rettore, Mons. Pasquale Silla, si seppe che da tempi lontani gli zingari ebbero la consuetudine di pellegrinare verso tale Santuario. Ogni 4 maggio, ricorrenza liturgica del beato Zeffirino, la comunità Rom e Sinti si ritrova al “Divino Amore”. Pertanto, conferma il Rettore, “rispettando questa tradizione, il Santuario si è reso disponibile […] ed ora apre il suo terreno ad uno spazio sacro, dove Rom e Sinti possano esprimere pubblicamente la propria fede e la propria appartenenza alla Chiesa”.

L’operato artistico

Il complesso costituisce un’organica installazione, dove forme e iconografie sono rigorosamente coerenti. I cromatismi s’accompagnano al paesaggio per immedesimare il “Santuario degli Zingari” con quello della natura. Anche le didascalie sono a commento dell’unica narrazione che prende vita dalle vicende personali e dai riti gitani. Monumento in bronzo e rilievi in terracotta sono stati realizzati dall’artista rom abruzzese Bruno Morelli. Il piatto in rame sbalzato, che è posto al centro dell’altare, è opera del rom kalderash Primo Hudorovich. La croce in ferro battuto con filo spinato, apposta sul cippo dell’olocausto, è stata forgiata dal sinto Marcello Cacciaroni. Il monumento bronzeo di Morelli spicca elevato sullo sfondo della campagna romana. S’innalza come il serpente di bronzo nel deserto e, soprattutto, come la croce di Cristo sul Calvario. Vetri policromi rappresentano i diversi frutti della santità che maturano con la testimonianza e con la preghiera, come commenta il rosario proteso verso l’alto a modo di labaro. L’albero bronzeo, opera di mano d’uomo, affonda le sue radici nel terreno per assorbire energia dalla madre terra e svetta i suoi rami verso il cielo per ricevere forza dalla provvidenza divina. Il componimento scultoreo ricorda la creazione adamitica in forma di metamorfosi greca. Non si tratta del solo passaggio dalla terra inanimata alla creatura animata. È la trasformazione dell’errabondo in cristificato. La robustezza impressa dallo scultore nell’albero diventa simbolo di ardimento. La figura di Zeffirino si staglia con patina rifulgente al sole. Il suo volto, teso ed estatico, è colto nell’atto di offrire la propria vita a Dio, quale testimonianza di amore ai fratelli. Stilemi fazziniani e mitologie orientali impreziosiscono l’opera fortemente scultorea. Robustezza temperata delle forme e levigatezza non leziosa delle superfici equilibrano la massa nei confronti dello spazio aperto. Corteccia e membrature dell’albero incorniciano nudità e muscolosità del corpo, dove la ferita della fucilazione si fa fenditura attraverso cui penetra il sole nel suo sorgere. Diversi sono gli stilemi delle terrecotte policrome a mosaico recentemente inventate da Morelli. Questa tecnica permette di plasmare tridimensionalmente la superficie iconografica che si ravviva dei colori forgiati a forno, sollecitando un ritmo dinamico e vibrante. I tasselli sezionati in scomparti autonomi e ricomposti insieme, fungono da “pennellate costruttive”. Il risultato è un gioco di incastri evidenziati da uno stuccaggio decorativo, che mette in risalto il valore cromatico e scultoreo di una costruzione polivalente e sintetica. Lo dimostrano l’ Agnello mistico nel basamento dell’altare e il Buon pastore nello schienale della sede. Quattro formelle intere iconografano, invece, l’ambone. Si tratta di uno stile studiatamente ingenuo per ancorarsi alla tradizione paleocristiana e a quella nomade: due momenti di Chiesa in cui la fede è stata provata dalla persecuzione.

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