Il commento

Architettura – Centro Pastorale Giovanni XXIII a Seriate (Bergamo)

di Don Giuseppe Sala, Direttore del Museo Bernareggi e consulente di arte sacra per la Diocesi di Bergamo

Mi si chiede un parere sulla chiesa di Botta. La richiesta avviene dopo che il sottoscritto ha già fatto da guida a tre gruppi ed ha in calendario altre due visite. Si tratta di sacerdoti, animatori liturgici e sagristi. Mi dichiaro subito neutrale, sia in questa nota sia davanti alle persone che accompagno. Evidentemente ho anch’io una mia valutazione, ma sarebbe una delle tante e non cambierebbe la statistica che vede schierarsi al cinquanta per cento sia i nettamente contrari sia i nettamente favorevoli, con in mezzo una maggioranza che fluttua tra i vari “distinguo”: fuori bello, dentro no; dentro bene, fuori prepotente; Vangi sì, Vangi no; oro sì, oro no; ambone solenne, ambone freddo; atmosfera solenne, ambiente freddo; porta originale, porta da frigorifero… A qualcuno non va la cifra spesa,
ad altri non piace l’idea dello “straniero famoso” che non sarebbe meglio dei nostri, ad altri ancora dà fastidio che l’architetto non si dichiari credente.

La pianta dell’aula.
Sezione interna verso l’altare.

Tutte queste osservazioni sono legittime e tutte sono degne di essere ascoltate. Il tempo poi dirà la sua, rispondendo anche alla perplessità di chi ha delle preoccupazioni circa la manutenzione e la funzionalità dell’edificio. Ponendomi fuori dalle valutazioni, mi attribuisco, proprio per questo, la libertà di annotare due cose interessanti. La prima riguarda il fenomeno che sta verificandosi: l’architetto è discusso, i giornali parlano spesso di lui, le sue realizzazioni sono ormai in tutto il mondo. Risultato? Non puoi non andare a vedere la sua ultima opera. Ma quello che si sta verificando, al di là della moda e della curiosità, è molto positivo. Tutti, esperti o no, sacerdoti o laici, credenti o no, riescono a dire che cosa intendono loro per liturgia, per luogo della Parola, per Cristo al centro, per tabernacolo, per assemblea, per preghiera corale e preghiera personale, per edificio-chiesa, per chiesa e… addirittura per rapporto cristiani-città. Pochissimi di coloro che ho sentito esprimersi, lo farebbero in un dibattito, in un corso di catechesi, in una università di architettura, in famiglia con i loro figli… Sembra che l’edificio concreto che si è venuti a visitare liberi da ogni linguaggio specialistico, aiuti a dire cose che da tempo (dal Vaticano II) erano sentite, ma che non si riusciva a dire e che mai forse si sarebbero dette. L’architettura in cui ti muovi ti aiuta spontaneamente a dire che tipo di cristiano ti senti di essere lì dentro e a quale tipo di assemblea stai-vorresti appartenere.

L’aula, con il fonte battesimale in primo piano.

La seconda sottolineatura è basata su una mia sensazione: tante volte si critica la preparazione specifica degli architetti per gli edifici di chiesa, la loro poca capacità di ascolto, la non consonanza su certi valori di fondo. Posso concordare su queste sottolineature sacrosante, avendole provate in tentativi concreti di collaborazione. Ma per me il punto più delicato è un altro: la committenza o, meglio, il fatto che la committenza lungo il percorso diventa doppia, tripla, multipla, al punto che l’architetto non sa di preciso che idea di chiesa e di liturgia gli si stia proponendo. Purtroppo sono passati solo pochi decenni dal Concilio Vaticano II e onestamente non abbiamo ancora maturato un’idea abbastanza diffusa di edificio-chiesa rispondente alla nuova liturgia. La zona del presbiterio è ancora la somma di tutti i luoghi liturgici (per fortuna il battistero se ne è allontanato!) e se tu chiedi aiuto a quattro esperti, dai liturgisti ai sacerdoti delle parrocchie, sul concreto avrai quattro risposte diverse. Forse sono troppe.

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