Giappone “Mondo Fluttuante”

Servizio di: Nausicaa Ferrini

Un viaggio attraverso la civiltà e lo stile di un grande paese dell’Oriente, che ha fatto della ricerca della perfezione una filosofia del vivere. Dall’”Ukiyoe” (pittura del mondo fluttuante) agli spazi privati di un’abitazione giapponese, dal rituale della cerimonia del tè ai giardini zen.

"Prestare piena attenzione ai piaceri della luna, della neve, dei fiori di ciliegio e delle foglie di acero, cantare canzoni,
bere vino e provar piacere soltanto nel fluttuare, fluttuare senza curarsi minimamente della povertà che grida in faccia…fluttuare lungo la corrente del fiume come un secco guscio di zucca.. questo io chiamo ukiyo”. Così scrive Asai Ryoi (?-1991) nei “Racconti del mondo fluttuante”, mondo rappresentato nelle immagini della mostra “UKIYOE, il
Mondo fluttuante” curata da Gian Carlo Calza e allestita a Milano, a Palazzo Reale, fino al 30 maggio. Ukiyoe significa letteralmente “pittura del mondo fluttuante” e identifica un tipo di arte (in genere xilografica e dalle connotazioni tanto popolari quanto raffinate) che domina il panorama figurativo giapponese dai primi anni del Seicento alla fine dell’Ottocento, epoca in cui operarono importanti artisti comeMoronobu, Harunobu, Utamaro, Hokusai, Hiroshige, Kuniyoshi. I loro capolavori coinvolgono il visitatore in un mondo di piacere e beltà e lo conducono attraverso i diversi
temi della mostra – il teatro, la tradizione, la natura, il paesaggio, i piaceri della vita di città, le beltà femminili – alla scoperta dei gusti e dei costumi di Edo, l’attuale Tokyo.

Nelle foto ritratti di animali e paesaggi. Fiori e animali, rocce e fiumi, baie e isole sono considerati dai giapponesi
come dotati di un’anima e sono contemplati come sacri. In queste due pagine alcune
rappresentazioni della vita cittadina; le cortigiane erano come principesse. Seducenti ed edotte nella musica
e nell’arte del tè, della calligrafia, e dei fiori.

Più di 500 opere, fra dipinti, paraventi, libri illustrati, stampe provenienti dalle principali collezioni pubbliche europee e mondiali, raccontano la trasformazione della società e della cultura giapponese, fra il XVII e la metà del XIX secolo, che si formò intorno alla città di Edo. Con il declino del vecchio sistema rigidamente feudale e l’affermarsi della nascente borghesia imprenditoriale, geishe, mercanti, artisti, letterati, stampatori, attori di teatro, ma anche nobili in cerca di piacere e pronti a dissipare le proprie ricchezze per qualche cortigiana, gremivano le vie della “città senza notte” Edo, formicolante metropoli ormai cuore dell’arcipelago. Il mondo fluttuava. Fluttuavano denari, fortuna, fama, bellezza.

Vita di città

“Un mondo lieve – dice Calza – che esalta i piaceri della vita…un mondo veloce e scintillante che incalza, ma subito è già passato. Lasciarsi andare lungo la corrente del grande fiume dell’effimero che trapassa. Questo è l’ukiyo, il mondo fluttuante. Di allora come di ora, dell’Omotesando della Tokyo di oggi o del Corso Como di Milano, del Meat Packing District di New York, del Notting Hill di Londra”. Una vita di bellezza e di fasto, uno splendore abbacinante che passa veloce e che comunica un forte senso di impermanenza. Eppure, secondo Calza, “proprio la coscienza di questa impermanenza e l’accettazione dello struggimento che ne deriva possono, attraverso l’arte, trasformarsi in veicolo di una più intensa, pregnante, capacità di percezione della realtà e dell’esistenza stessa”.

Beltà femminili

Il fascino della donna giapponese allungata e flessuosa, il senso dell’incorporeità del fisico unito ad una grande seduzione si diffuse rapidamente e con successo nel mondo fluttuante. Il corpo delle cortigiane ricorda la grazia dell’airone bianco che scivola lieve sulle onde insidiose della vita di piacere della città di Edo.

Ispirati dalla squisita raffinatezza dell’Ukiyoe, proseguiamo il viaggio all’interno dell’universo Giappone ed entriamo in un&rsquo
;abitazione giapponese per conoscere usanze e tradizioni e per cercare lo “zen dell’estetica”, che tanto affascina il mondo occidentale. “JAPAN, The Art of Living”, di Amy Sylvester Katoh e Shin Kimura edito da Charles E. Tuttle Company, è il volume da cui sono tratte queste immagini che ci accoglie nel lontano mondo del Sol Levante. I giapponesi sono definiti “gli aristocratici del gusto” per la ricerca dell’armonia e della perfezione che si coglie nelle loro case e nei loro riti.

I tansu (fig.2) sono mobili giapponesi caratterizzati dall’abbinamento del ferro battuto con il legno laccato. Tatami per
sedersi (fig.3), sul tavolo (fig.5) tessuti dipinti a mano e, in fondo, un pannello decorato con 36 poemi scritti con l’arte della calligrafia.

In Edicola

E’ una storia antica, la loro, che nasce con il taoismo e prosegue con lo Zen, i cui insegnamenti si concretizzano ancora oggi nell’arredamento della casa, nella cerimonia del tè, nella disposizione dei fiori, nella progettazione dei giardini. L’arredamento d’interni si basa sul concetto di “vuoto” e di “ombra”. Solo nel vuoto si trova ciò che è realmente essenziale: nello spazio spoglio, nella semplicità del legno, nella nudità delle pareti. Solo dall’ombra nasce la bellezza: il mistero dell’Oriente è dato dai contrasti del chiaro – scuro. La luce che entra all’esterno viene filtrata dalle porte scorrevoli, dai paraventi rivestiti di sottilissime lamine dorate (fig.4). E’ un’illuminazione sensuale creata da paralumi cartacei che rivestono lampade elettriche.

Zen ed estetica

La carta (di riso, di seta) meglio del vetro si sposa ad una casa giapponese; il legno e il bambù sono gli elementi di una tecnica costruttiva che utilizza forme semplici e materiali naturali. E’ un’architettura organica, che modella la propria forma in funzione del territorio; le case sono progettate alludendo allo spazio esterno, al paesaggio posto dietro ai paraventi e alle finestre (fig.6). Questa casa, ad esempio, (fig 1) è stata pensata attorno al momento esatto in cui l’esterno e l’interno si fondono nell’incontro perfetto dei fiori di ciliegio con il tansu “apparecchiato” con vasellame bianco e blu. Nellla pagina accanto una finestra circolare divide e suggerisce lo spazio accogliendo la luce della luna. (fig. 7).

La cerimonia del tè

Nella cultura giapponese la cerimonia del tè riveste un ruolo fondamentale. In origine il tè fu medicina, per poi trasformarsi in bevanda. Nel XV secolo il Giappone lo elevò a religione estetica. Si tratta di un culto fondato sull’adorazione del bello, in contrapposizione alle miserie della vita quotidiana. Queste immagini tratte dal volume “Il grande libro del tè”, edito da Idea Libri (con prefazione di Anthony Burgess), ci mostrano i riti e i luoghi della cerimonia. La stanza del tè (sukiya) non vuol sembrare niente di più che una capanna di paglia; ma in realtà è il risultato di una profonda elaborazione artistica.

L’origine di questa semplicità e purezza va ricercata nel tentativo di emulare il monastero zen, poiché i fondamenti della cerimonia del tè risalgono al rituale dei monaci zen. Il termine sukiya significa “dimora del vuoto” e la stanza de tè è effettivamente del tutto vuota, ad eccezione di quello che vi si trova temporaneamente per soddisfare un certo stato d’animo estetico. Il tetto di paglia, la fragilità delle colonne sottili, la leggerezza dei sostegni di bambù, la rendono un autentico santuario, lontano dagli affanni del mondo esterno. Gli ospiti prima di entrare nella stanza percorrono un sentiero nel giardino, “roji” (terra umida di rugiada), che collega il portico alla stanza da tè vera e propria. “Si cammina in silenzio nella penombra dei sempre-verdi per dimenticare i rumori del mondo”. L’armonia con la natura è condizione indispensabile alla cerimonia. Gli ospiti entrano uno per volta senza far rumore dopo avere reso omaggio al dipinto o alla composizione floreale collocati nel tokonoma, e vanno a sedersi. Il padrone di casa (maestro di tè) entra per ultimo; niente turba il silenzio. Solo l’acqua che bolle nel bricco in fondo al quale sono stati disposti alcuni pezzi di ferro che producono una melodia che ricorda il mormorio dei pini, o una tempesta che si abbatte su un bosco di bambù. Gli invitati bevono da una medesima tazza, a turno. Non un colore che alteri il tono della stanza,
non una parola che infranga la meditazione; ogni gesto deve seguire il rituale codificato perché ciascun iniziato sa che la cerimonia è “un’idealizzazione della forma
del bere, una religione dell’arte di vivere”.

Il tè scelto per questo rito è il “Matcha”, o spuma di giada. Un tè verde finemente ridotto in polvere (fig.4) che non viene infuso, ma battuto in una tazza con l’aiuto di una piccola frusta di bambù (chasen). A piena pagina: un artigiano prepara con grande maestrìa il chasen. Stanze della casa del maestro dove si insegna la via del tè, (foto1-2); donna che si prepara al rituale (foto 3).

La Fondazione Urasenke di Kyoto è la più celebre delle tre scuole di tè del Giappone. Il portico e il roji, il sentiero rugiadoso di pietre e aghi di pino che conduce alla stanza del tè. La penombra degli alberi, il muschio sui ciottoli e i canti degli uccelli preparano alla concentrazione.

Il giardino giapponese

La bellezza seduce ed incanta l’animo giapponese e il giardino come opera d’arte perfetta ne rappresenta la sintesi. “Luna piena d’autunno, sulla stuoia di paglia, l’ombra di un pino” (Kikaku, 1661-1707). Il giardino giapponese
per tradizione crea una composizione scenografica che imita la natura nel modo più semplice possibile; è vissuto in modo statico come un quadro da ammirare, e solitamente è costituito da elementi di piccole dimensioni: una semplice pietra basta ad evocare una montagna in una rappresentazione basata sull’essenza di un’idea. I giardini Zen accentuano l’uso dell’astrazione: gruppi di rocce simbolizzano montagne, la sabbia bianca è l’acqua che scorre. Il giardino è considerato sacro perché nella natura scorre il “Soffio vitale”.

Un soggiorno milanese si apre su questo incantevole giardino in stile giapponese. Progettato dall’architetto Lola Sciovè è una sintesi di grazia e poesia orientale.

Per esaltare il colore dei petali che cadono a terra ci si è orientati verso la ghiaia calibrata nera, che permette di avere sassi delle stesse dimensioni. Un ruscello artificiale ricicla l’acqua proveniente da una piccola sorgente. Il percorso,
con andamento curvilineo, è coperto da lastre di vetro. Sono stati collocati dei dischi di pietra (la pietra è la vera protagonista del giardino giapponese sia sul piano simbolico perché contiene le forze spirituali, che sul piano spaziale)
dalla colorazione rossa. Il tutto poggia su un fondo di cemento coperto da lastre di ardesia incastrate a mosaico.

Gabriella Anedi

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