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Il rapporto tra l’arte e l’architettura, emerso prepotentemente negli ultimi anni come protagonista del dibattito disciplinare e anche della trasformazione reale delle città, non può essere indagato con la necessaria tensione innovativa se si rimane all’interno di questa stessa bipolarità ovvero all’interno di un modello sostanziale militare di sopraffazione, di invasione, di conquista. Considerando infatti l’arte in rapporto all’architettura nasce subito un problema di competizione tra la pittura, la scultura, la video-arte, l’installazione, le performance, ma anche il cinema, la fotografia, la pubblicità e l’architettura, una competizione nella quale si cerca di trovare quali sono gli elementi distintivi Bisogna comunque aggiungere che, nel rapporto tra l’arte e l’architettura considerato dal punto di vista dell’arte, quest’ultima assume sempre il ruolo di arte applicata. La public art, l’ arte ambientale, e anche la scultura nello spazio pubblico sono sempre forme d’arte in qualche modo di servizio, che inseriscono l’arte stessa in un processo sostanzialmente entropico. Tuttavia anche il fatto che l’architettura soltanto ingloba il corpo, pur se incontestabile, non è essenziale. Negli ultimi anni è invalsa la tendenza a considerare l’architettura un’arte incompleta alla quale solo l’arte vera può conferire una conclusione adeguata. Rimanere nell’ambito della competizione tra le arti non aiuta a comprendere veramente la natura del rapporto tra l’arte e l’architettura, finendo nel migliore dei casi con il favorire la messa a punto di una sorta di tassonomia di ruoli, nella quale ci sarebbe la vera arte, ovvero quella dei musei, l’arte applicata, l’arte terapeutica e pedagogica, le arti della strada, ovvero le arti dell’appropriazione, della narrazione e della trasformazione dello spazio urbano, dallo street style ai writers, dal parkuor all’estremismo dei black bloc. In sintesi la
Quest’ordine di riflessioni, centrate sull’identità delle arti, presenta un insuperabile limite accademico, un limite troppo pronunciato perché riesca ad essere superato per costruire un discorso più efficace. Invece risulta più utile, anche se non del tutto risolutivo, il modello logico della comunicazione. Osservato da questo angolo visuale, che comporta la centralità dell’ immagine nella sua ambigua consistenza tra assenzae presenza, il rapporto tra l’arte e l’architettura entra nel grande tema emerso nella seconda metà del Novecento con la pop art, una forma d’arte che sembra aver sconfitto definitivamente ogni concezione estetica basata sull’idea che un’opera d’arte è un fenomeno ermetico, esclusivo, in sostanza iniziatico ed elitario. Qualcosa che vive tra Sigmund Freud e la Scuola di Francoforte e che presenta l’esperienza estetica come una pratica della crisi sostenuta da quella linea analitica di cui ha scritto Filiberto Menna. Il dentro come luogo introspettivo, come ambiente appartato nel quale l’arte si configura come la manifestazione più alta dello spirito, è stato sostituito dal fuori come estroversione, come espansione dell’io in una gratificante e spesso euforica esplorazione del mondo. Un mondo fisico opposto a quello psichico. Incorporando la triade costituita da Marcel Duchamp, Andy Warhol e Guy Débord, la comunicazione ha totalmente ridefinito il rapporto delle arti con se stesse e con il loro farsi sistema, ponendo in primo piano tre fenomeni: la trasmissione di informazioni; la produzione di emozioni sotto il segno dell’intrattenimento; l’introduzione subliminale di modelli culturali alti tradotti in slogan mediatici, modelli utili alla costruzione di grandi mitologie collettive aventi come finalità l’illusione dell’immortalità, della felicità, della bellezza, dell’unicità. Anche dal punto di vista della comunicazione non ha alcun senso distinguere Uno sguardo forse più appropriato al problema è quello del consumo. Più che una esigenza logico-critica che cerchi le distinzioni specifiche, più che la comunicazione come, può essere infatti il consumo una chiave giusta per comprendere cosa significhi, al di là delle apparenze, il rapporto tra l’arte e l’architettura. Rifiutando ogni orientamento moralistico o facilmente politico occorre rendersi conto fino in fondo che il consumo è una forma di conoscenza del mondo. Si potrebbe
L’architettura si situa anch’essa in questa orbita ma, al contrario delle altre arti, che possono essere effimere, in essa il consumo si pone solo come plusvalore ideale affidato all’immagine. Dal momento che non può fisicamente consumarsi, né spostare il suo consumarsi all’altro da sé, l’architettura si è dotata di parti o di frammenti caduchi che possono corrispondere ai tempi ciclici e ravvicinati del consumo. Considerato dal punto di vista del consumo il rapporto tra l’arte e l’architettura si dissolve naturalmente in un trascorrere reciproco dei vari codici, in un’appartenenza reciproca dei vari linguaggi priva, però, di una vera necessità. Come in ogni costruzione filosofico-politico e logicoideologica anche il consumo pone la questione di come si possa agire e non solo pensare la consapevolezza della sua esistenza ed, È estremamente arduo comprendere se e come il consumo incrementi la libertà delle persone o la neg
In una visione veramente innovativa della società e della città non si può non condividere l’idea che si debba riconquistare un sapere urbano degno di questo nome, un’arte della città, come trasformazione alchemica di una conoscenza, che è solo dell’architettura e dell’urbanistica, in qualcosa che cambi costantemente questa stessa conoscenza. Una conoscenza che riguarda l’unico compito dell’architettura, che è quello di costruire un abitare solido, sicuro e in grado di evolvere nel tempo, per tutti, un abitare che può essere belloe capace di conservare memorie solo dopo aver garantito le necessarie prestazioni funzionali. Prestazioni nelle quali si nasconde, nonostante gli aspetti utilitari in esse presenti, un valore spirituale. Questa conoscenza ha a che fare con tracciati, o trame; con tessuti; con distanze, con masse e con spazi, soprattutto con ciò che non si vede, e non solo con ciò che si vede. Non tanto, quindi, relazioni, processi, fenomeni ma questioni più solide di perimetri, lotti, confini, misure, metriche, tipologie. Sulla strada dell’architettura-installazione si potrà procedere ancora per poco: è molto meglio far sì che sia l’architettura a recuperare e rilanciare la quantità di arte che essa possiede – e che non è insignificante – collocandosi rispetto alle altre arti secondo le possibilità che essa avrà di proporsi come affermazione piena della libertà di conoscere e di essere consapevoli nell’ambito potenzialmente totalizzante del consumo, forse l’unica libertà oggi concessa. L’arte è sempre stata rara, così l’architettura. La democrazia borghese, che ha più di duecento anni, ha cercato in ogni modo di democratizzare l’arte, ma – Walter Benjamin lo sapeva – ne ha democratizzato solo l’ accesso,anche questo più apparente che reale. Si è più democratici e più liberi non consumando ulteriormente la visibilità dell’arte mentre essa rimane, come le è dovuto, quasi imprendibile nel suo mondo per pochi, ma creando altra arte e cioè altra difficoltà comunicativa, altro mistero, altra eversione.
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