Enrico Corti


Architettura e Arte hanno, entrambe, a che fare con il termine progetto; 1 entrambe sono sostenute da una intenzionalità proiettiva che manipola la ‘rappresentazione’ del reale, ed è proprio per sottolineare questa particolare relazione con la realtà che facciamo intervenire il termine ‘immaginazione’. Abbiamo sufficienti ragioni, oggi, per interrogarci sulle nostre facoltà immaginative, in un momento in cui nel nostro universo di artefatti architettonici, sono comparse, con crescente frequenza, strane apparizioni, che hanno scosso le nostre abitudini e le nostre attese percettive; quasi un’ altra faunalontana da ogni riferimento stabile, certo, consolidato rispetto a ciò che abbiamo chiamato architettura o sperimentato come città.2 Mi riferisco a diverse e ormai numerose esperienze accomunate
dall’utilizzazione di tecnologie digitali, che si propongono come ‘avanzamento’ logico-concettuale del progetto sostenuto dal ‘pensare digitale’ sviluppate nei laboratori dell’ipermodernità, e diffuse dalle pervasive reti della comunicazione di massa.3 Così si incominciano a vedere gli effetti che derivano dall’utilizzo inconsapevole di queste nuove raffigurazioni alle quali si attinge come fossero prodotti di cosmesi, grandi barattoli di cipria, contenitori di rosee e profumate illusioni con le quali si tenta di imbellettare il consunto volto della vecchia architettura e della città.

Troppe immagini, poca immaginazione?

La mia convinzione è che difficilmente potremo assumere qualche criterio di confronto con queste e con le altre esperienze di produzione formale della contemporaneità, se restiamo al livello dell’immagine e non riconsideriamo l’immaginazionee il suo significato sociale.4 Per tutta la seconda metà del Novecento (il secondo lungo dopoguerra)
la riflessione sugli aspetti immaginativi del progetto è rimasta sullo sfondo. Le traumatiche esperienze della prima metà del secolo, impedivano alla seconda di sollevare il velo, di liberare nuovamente il pensiero immaginativo che è stato esorcizzato tramite scoppi apparentemente rivoluzionari (l’immaginazione al potere con tutte le possibili
radicalizzazioni dell’utopia) o irretito nel paludamento ideologico dell’impegno politico dell’intellettualità.5 Alle prese con gli sbandamenti più recenti, credo si debba insistere nuovamente sulla funzione del progetto nella costruzione dell’immaginazione sociale e, reciprocamente, sull’importanza dell’immaginazione sociale nella costruzione del progetto.

SoftOfficeUK, Nox, 2000
(Un) Plug Building, Francois Roche e
Stephanie Lavaux, 2001

Il progetto interpreta e decodifica la realtà sociale attraverso le rappresentazioni simboliche, le rielabora, le consolida e le trasforma: opera costantemente sul limite, fra congruenza e incongruenza, fra utopia e ideologia, dove si colloca la frontiera della libertà e dove si gioca la battaglia più importante. E dunque, da un lato concordo con Marco Romano che invita a non essere incolti, superficiali o stupidi nel manovrare la grande eredità simbolica delle immaginazioni collettive che hanno reso possibile la città e l’architettura. I margini di invenzione, ha detto Marco, sono modesti. Io non concordo sulla loro ‘modestia’; sono molto complicati ma importanti: il progetto ha sempre il compito di esplorare l’incongruenza
possibile, non per il gusto dell’invenzione, ma perché è l’unica verifica delle nostre rappresentazioni, sempre in bilico fra la stanca ripetizione (ideologica) o la fuga immaginifica nell’altrove. Ha parlato, Marco Romano, di un deposito, di un magazzino dove stanno i tematismi collettivi, i simboli dotati di senso che si sono esplicitati in forme spaziali e temporali della città, ai quali possiamo ancorarci. Ma c’è anche uno scantinato, come ci racconta Calvino per la città di Teodora; questa città aveva combattuto in tutti i modi possibili per eliminare ‘l’altra fauna’, tutti gli insetti pericolosi, innocui o fantasiosi, contro i quali pensò di aver vinto la sua battaglia, isolandoli negli scantinati; fino al giorno in cui gli ircocervi, le arpie, gli unicorni, i basilischi e via dicendo si rimpossessarono nuovamente della città. Se abbiamo l’impressione che l’ altra faunaci stia invadendo allora dobbiamo imputarne le ragioni alla stanchezza immaginativa che ha caratterizzato la cultura europea forse più che le altre culture con le quali la globalizzazione ci fa confrontare. Quello che sembra certo è
che la ricerca architettonica (e più ancora quella urbana) ha fatto, per troppo tempo, a meno dell’arte e di una rielaborazione simbolica e dunque di immaginazione.

Excideuil Folie, dECOi Architects, 2001
Maison Dom-In(f)o, DR_D LAB, 2002-2003

È l’arte che frequenta più gli scantinati che gli archivi e i magazzini; è l’arte che addomestica l’ircocervo, le arpie e gli unicorni, rendendoci domestiche e comprensibili anche le nostre rimozioni, dando corpo alle nostre recondite aspirazioni di libertà. Questo orizzonte immaginativo era ben presentein Louis Kahn: amo iniziare, diceva, perché è all’inizio del progetto che ci sono le vere domande, del perché e del che cosa è. Molti progetti di oggi non mi sembra che inizino, ma assurdamente si complicano in sempre più raffinate elaborazioni di figure, quasi che l’obiettivo fosse la libertà dell’immagine e non quella, assai più significativa, dell’immaginazione; presente in Aldo Rossi, la cui opera, teorica e pratica, è tutta una profonda riflessione sull’immaginazione. Se devo parlare dell’architettura oggi, della mia o di quella di altri, ritengo sia importante illuminare i fili che riconducono la fantasia alla realtà e l’una e l’altra alla libertà … E io credo alla capacità dell’immaginazione come cosa concreta, concetti che esprime, in forma metaforica, con la città analoga. È a commento di questa tavola che specifica, infatti, il suo ammonimento: immaginazione nelreale, non immaginazione delreale. Questo è il vero discrimine: alle volte si pensa di poter acquistare maggiore libertà immaginativa rifiutando il fardello che la realtà sociale e la cultura ci impongono; e allora si cade vittime di astratte utopie o di pretese ideologiche o di altri padroni; il vero problema è star dentro, dentro la realtà sociale, dentro la cultura, dentro l’architettura, dentro la città, esplorando in questa internità tutte le possibili libertà. E in questa battaglia arte e architettura non solo sono alleate, ma comprovano e rafforzano la loro radice comune.

1. Mestieri progettanti sono stati definiti da Pippo Corra nel suo intervento al Seminario (Arte Architettura, Camerino 2005).
2. La critica che in questa sede ha svolto Marco Romano sulle proposte presentate al concorso per la Fiera di Milano non lascia dubbi sul fatto che è stato completamente espunto il riferimento ai modi canonici di interpretare la città e, nella fattispecie, ai tematismi collettivi che hanno fondato la città europea.
3. Ci si può riferire al catalogo della prima biennale di architettura di Pechino 2004; o ad altri cataloghi come quello della mostra di Graz Latents Utopias o quello del Centro Pompidou Architetture no-standards, per citare i più noti.
4. Aveva iniziato negli anni ’30 del secolo scorso Karl Mannheim a interrogarsi sui meccanismi (sociologici) che presiedono al costituirsi di quelle grandi immaginazioni collettive che sono le ideologie e le utopie. Karl Mannheim, nel riflettere per la prima volta in modo sistematico su queste faccende, considerava due fondamentali patologie del pensiero immaginativo, identificate con l’Utopia e l’Ideologia, nelle quali riconosceva i frutti malati delle culture europee dei primi anni ’30. Entrambe sono figure di non congruenza con la realtà sociale; la prima perché non ritiene possibile strutturare significati se non immaginando l’altro e l’altrove; la seconda perché non opera nella realtà sociale, ma perché ad essa sovrappone una propria visione convenientemente deformata. 5. Per altro incapace – come argomentava polemicamente Tafuri – di una autentica posizione nei confronti della realtà sociale.

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