“313: RELIGIO LICITA” EDITTO DI MILANO

S.E. Mons. Franco Giulio Brambilla, Vescovo ausiliare di Milano, Preside della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e Vicario episcopale per il settore cultura dell’Arcidiocesi ambrosiana, ha risposto a una serie di domande attorno al progetto dei luoghi di culto, proponendo anche l’idea di nuovi spazi per l’incontro.

Lei ha avuto modo, sin dalle Sue prime esperienze in parrocchia, di occuparsi dell’architettura di una chiesa nuova: che importanza ha avuto questo nella Sua formazione?
Ho avuto la fortuna, nei primi dieci anni del mio ministero domenicale, di essere inviato a San Giuseppe di Monza, dove era appena stata terminata la costruzione della nuova chiesa su progetto del Prof. Arch. Justus Dahinden, sotto la regia sapiente di Mons. Giuseppe Arosio, che poi sarebbe diventato Direttore dell’Ufficio Chiese Nuove della Diocesi di Milano, e animatore instancabile del “Piano Montini”.
Lì ho visto che si può costruire, in una zona periferica di Monza tra San Rocco e San Fruttuoso, un’architettura di Chiesa e insieme la Chiesa di persone. Appena arrivato ho notato come l’impresa edificatoria era stata veramente corale.
Ho ammirato l’inserimento della chiesa nell’ambiente anonimo dei condomini, con la soluzione geniale di creare un cammino con due piazzette e un’arena che facessero incontrare la gente prima e dopo l’azione liturgica.
Ho apprezzato la novità di uno spazio liturgico ben congegnato, con la disposizione del battistero e dell’ambone, della sede e del tabernacolo, a far da corona alla mensa eucaristica.
Ho visto lo sforzo di mantenere il filo della tradizione lombarda costruendo l’edificio in mattoni rossi, appositamente anticati, per richiamare le architetture del cotto lombardo.
E molte altre novità che trovavano il loro centro pulsante nella celebrazione e nella vita ecclesiale proprio intorno alla nuova chiesa.
Una vera magia!

L’architettura contemporanea è spesso criticata, soprattutto in relazione alla chiesa, perché non ha forme riconoscibili, a differenza del passato. Ritiene che anche la pluralità delle espressioni formali contemporanee possa essere capace di rappresentare il sacro?
Credo che la scelta dell’architettura delle chiese contemporanee, di operare una rottura rispetto agli stili storici, derivi da due ragioni. La prima è una reazione di fronte alle molte chiese, costruite nella prima metà del Novecento, che sono “citazioni” di stili storici. Anche a Milano ve ne sono molte: le vedi da lontano e ti sembrano antiche, quando ti avvicini scopri che sono delle copie. La seconda ragione è il tentativo di interpretare talvolta questo gesto di rottura, cercando di dare forma architettonica a un simbolo biblico (la tenda, la nave, la colomba…) che però fatica a costruire uno spazio per l’azione liturgica e per la storia di una comunità che prega, oppure interpreta il misticismo dello spazio sacro con forme esoteriche e senza legame con la storia dell’occidente cristiano.

Nelle diverse epoche l’architettura sembra ancorata a modalità abbastanza ben definite. A che cosa attribuisce il peculiare pluralismo espressivo dei nostri giorni?
Certo una chiesa storica è ben riconoscibile dal suo stile: le regole ecclesiastiche e i canoni estetici dell’epoca spingevano verso un codice di base che però riceveva variazioni talvolta geniali.
Si pensi al romanico, al gotico, al rinascimentale, al barocco, persino al neoclassico…
Oggi sembra che il “pluralismo espressivo” sia dilagante, al limite di una non riconoscibilità dell’edificio chiesa, rispetto a… una banca o a un supermarket. In realtà anche nelle chiese del secondo Novecento è facile riconoscere, dallo stile e dai materiali, quasi il decennio in cui sono costruite. Pensiamo solo all’uso del cemento armato a vista negli anni Cinquanta e Sessanta o alle coperture in legno lamellare negli ultimi vent’anni. Ma anche gli stili sono facilmente riconoscibili in rapporto al modo di edificare gli altri edifici della città a valenza “simbolica”. Resta la questione essenziale, che sovente pone anche l’attuale Pontefice: se l’architettura di chiesa si costituisca solo in continuità e non sia capace anche di differenziarsi dall’architettura contemporanea. Se, in altre parole, sappia signi-ficare uno spazio del sacro e della trascendenza, mediante il gesto dell’edificare la casa della preghiera comune nel contesto della città.Ritiene che l’architettura (e l’arte) dei nostri giorni costituisca una testimonianza fedele della cultura contemporanea o che vi sia una discrasia tra di esse?
Non può essere che così: gli edifici sim-bolici della città, cioè quegli spazi che rendono possibile il rapporto sociale, esprimono e, insieme, costruiscono lo spirito del tempo. Se sono solo “espressivi” del sentimento di un’epoca, come la nostra, illustreranno un sentimento “secolare” della vita, dove lo spazio sociale è spesso una landa di ululati solitari, luogo del consumo e del mercato, che scambia mezzi e marginalizza i significati. Se invece l’architetto (e rispettivamente l’artista) sono come i poeti dello spazio, essi non solo interpretano l’epoca attuale, ma ne indicano anche le fessure e le ferite aperte per il sacro, cioè per quel sentimento per cui la vita vale più di ciò che produciamo e consumiamo. Per questo la póiesis dello spazio è “edificare” uno spazio d’incontro con l’altro e d’invocazione dell’Altro che ci avvolge nel mistero della vita. E che tutti chiamano di Dio! Sappiamo dialogare con l’architetto e l’artista per fargli cogliere il brivido (il fascinosum et tremendum) di questa sfida enorme? Costruire una chiesa dovrebbe essere per un architetto la sfida di una vita: tutte le sue conoscenze tecniche devono trascendere in uno sforzo supremo di creatività, che faccia esplodere il sentimento del suo tempo!

Lei ha recentemente presentato a Vicenza il volume sugli adeguamenti delle cattedrali lombarde: quale il Suo giudizio in merito a tali opere?
Nel caso di un “adeguamento” liturgico, soprattutto in una Cattedrale, il rapporto di continuità/rottura raggiunge il suo massimo punto di criticità. Poche sono le soluzioni geniali: alcune cercano talmente la continuità da creare disposizioni (in particolare del presbiterio) fittizie e kitsch; altre, non riuscendo a inserirsi agevolmente, cercano un gesto di rottura così radicale che non tengono conto né della storia architettonica della navata, né della spazialità del presbiterio, secondo la riforma liturgica. A parte la mensa (che sovente oscilla tra il tavolo e l’altare) due sono i punti difficili per cui trovare una soluzione: l’ambone e la cattedra episcopale.
Il primo diventa così “imponente” da farlo sembrare un pulpito raso terra, la seconda corre il rischio di non poter più ospitare chi è il segno dell’unità visibile di una chiesa. Così come per il coordinamento degli elementi del presbiterio: la genialità nell’adattamento liturgico dovrebbe tradursi in soluzioni semplici, capaci di esprimere la memoria e la creatività del presente. Non per essere localista, ma la soluzione del Duomo di Milano si avvicina molto a ciò che intendo.

Parlando di architettura delle chiese la mente corre subito alle responsabilità degli architetti. Ma quale la responsabilità dei committenti, e in che modo la formazione dei presbiteri potrebbe migliorare l’approccio al progetto?
Sì, la responsabilità degli architetti è fondamentale.
Non sarebbe male se essi partecipassero almeno a un corso di teologia liturgica e a un percorso di estetica teologica: qui la riflessione ha fatto negli ultimi anni passi da gigante. E soprattutto se pensassero il progetto prevedendo fin dall’origine la collaborazione degli artisti edegli artigiani. Ma il vero punto debole è l’incertezza della committenza, in particolare del parroco e della comunità, che dovrebbero essere supportati anche dagli
Uffici diocesani e nazionali. Non ci si può aspettare che arrivino proposte persuasive solo dalle singole comunità, ma è necessario anche che si guidino esperimenti nuovi con la forza della progettualità. D’altra parte la formazione dei presbiteri non può coprire tutte le sensibilità. Certo la dialettica artista-committente è decisiva: nessuno deve fare la parte dell’altro, ciascuno deve però lasciar fare all’altro la sua parte. Altrimenti può venirne un progetto bello, ma che ha poco a che fare con una chiesa; oppure le esigenze liturgiche ed ecclesiali prevaricano sulla dimensione artistica ed estetica. 

Nel 2013 si celebrerà il 1.700° anniversario dell’Editto di Milano. Si può pensare di farne un evento tale da portare a un serio ripensamento sull’approccio al progetto delle chiese, nella prospettiva millenaria che l’evento implica?
Questa è una buona idea: non penso tanto a una chiesa dedicata all’Editto di Milano, come s’è fatto per altri anniversari. Sappiamo che l’accordo di Milano tra Costantino e Licinio è il momento in cui il cristianesimo (e non solo) diventa religio licita, cioè un culto ammesso, e la società romana si apre alla libertà religiosa.
Ed è legato a questo momento il gesto geniale dei cristiani di assumere l’edificio pubblico della basilica romana per farlo diventare l’ecclesìa cristiana. Sarebbe bello proporre uno studio, ma anche la progettazione dell’adattamento liturgico di alcune basiliche o chiese che attendono ancora un intervento convincente e persuasivo. A meno che non si pensi a un concorso per la progettazione di uno spazio di preghiera multireligioso per un luogo (penso a un ospedale) dove l’incontro tra le religioni avviene nel vivo del tessuto della convivenza umana. Gli esempi in tale direzione non sono molti, ma l’esigenza diventerà pressante nel futuro. E non ci dovrà trovare impreparati.

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