Donato Caporalini


Il XV Seminario di Architettura e Cultura Urbana, da cui scaturisce questa pubblicazione, ha affrontato nodi teorici e pratici estremamente delicati, imbarazzanti per la cultura urbanistica contemporanea. Sebbene infatti la nostra sia un’epoca lessicalmente soggiogata dal riferimento alla dimensione progettuale che finisce per connotare ogni nostro costrutto comunicativo, qualunque ne sia l’ambito semantico (la citazione del progetto è obbligatoria sia che si parli di politica o di scienza, di promozione o di arte, ecc.) noi avvertiamo quasi fisicamente il peso della crisi della cultura progettuale, in particolare di alcune discipline. A ben guardare i rischi ‘di impotenza del progetto’ erano già enunciati
nell’opera che ne celebrava l’avvento: nel suo Essay upon Projects Age (1697), Daniel Defoe, infatti, annuncia l’inizio della ‘Projecting Age’, l’età progettuale , ma nel contempo accenna al pericolo che le grandi istituzioni sociali e i centri di potere restino impermeabili al linguaggio progettuale. Certo, si potrà dire che ciò non è vero (o non è sempre stato vero) dato che nel ’900 abbiamo purtroppo assistito a progetti totalitari che sono divenuti essi stessi esercizio smisurato di potere sulle strutture sociali, culturali e biologiche di intere comunità. Ciò non ha cancellato però il nesso tra società contemporanea e pro-gettazione, ovvero la trasformazione intenzionale secondo un disegno razionale della realtà. Semmai è vero che in alcuni campi – e segnatamente in quello dell’architettura – sentiamo la possibilità di un offuscamento della capacità progettuale.

Questo penso dipenda dal fatto che la complessità delle trasformazioni urbane, dei linguaggi architettonici a cui la cultura progettuale deve far fronte, sia oggi sfidata da un duplice rischio ‘riduzionistico’ che è connesso alle trasformazioni sociali e culturali in atto (crisi del welfare, ristrutturazione dei campi disciplinari dei saperi, sviluppo tecnologico, ecc..) .
Il primo di questi rischi è rappresentato dall’onnipotenza del mercato che tende, anche in questo campo, ad imporre la sua logica condizionando fortemente le scelte progettuali, che non sono in sintonia con le compatibilità economiche e mercantili. L’altro elemento di rischio è quello che io chiamo il ‘politeismo estetico’; figlio in parte dei fenomeni di democratizzazione dei consumi e della stessa opera dissacratrice delle avanguardie, il politeismo estetico finisce per negare la possibilità stessa di un linguaggio architettonico condiviso, pretendendo di legittimare ogni gusto. Ciò, a mio parere, è anche una delle ragioni che rendono spesso ‘debole’ la politica. Questi temi sono particolarmente pungenti quando si parla di recupero e rinnovamento del patrimonio esistente, specialmente se ci si vuole cimentare con il compito di fare in modo che questa azione sia diretta alla rivitalizzazione delle funzioni sociali e non ad una operazione puramente retorica e sentimentale, con i conseguenti rischi di falsificazione storica che inevitabilmente tale approccio comporterebbe. Una parte delle risposte di cui abbiamo bisogno si trovano, ne sono certo, nelle competenti riflessioni di questo volume, di cui perciò dobbiamo essere grati agli organizzatori e agli autori.

* Assessore ai Beni Culturali e Turismo della Provincia di Macerata

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