COME UN LIBRO APERTO AL CALEIDOSCOPIO DELL’ARTE

La straordinaria qualità dell’indagine fotografica elaborata da Moreno Maggi, caratterizzata da uno spirito documentativo non passivo ma atto a proporsi come attraversamento esperenziale dello spazio e dei volumi, mi permette di condurre all’interno del complesso parrocchiale di San Paolo Apostolo in Frosinone una ‘visita critica’ personale e da essa muovere suggerimenti e proposte per ciò che appare, ed è condiviso dal suo progettista, un’opera aperta, ospitante e pronta a ricevere i segni del sacro. Solo così si sente autorizzato a intervenire chi scrive avendo esclusivamente competenze sul patrimonio artistico e responsabilità operativa sull’incidenza e la distribuzione dei linguaggi visivi contemporanei nello spazio sacro, in relazione al pensiero teologico e all’azione iconografico-liturgica.

I disegni preparatori e i progetti
Danilo Lisi, architetto, sin dai primi disegni condotti in un dialogo attivo fra le diverse forme base del cerchio e del rettangolo, del triangolo e del quadrato, dal cui sviluppo volumetrico trova ragione il titolo dedicato alla “Geometria del divino”, predispone in pianta il principio dell’articolazione urbanistica dello spazio; il complesso parrocchiale appare concepito sull’esigenza e la volontà di una fruizione e partecipazione attiva, itinerante e non obbligata da un unico punto focale. Sia i disegni che i progetti, tesi alla descrizione dei volumi e delle loro relazioni, sottolineano l’obiettivo di predisporre un territorio architettonico e una realtà urbana assemblata tra funzioni e ruoli diversi, in un rapporto di giusto equilibrio che solo le forme di frequentazione sono in grado di confermare.
Potremmo dire che il tema della frequentazione, intesa nella sua valenza fisica di muoversi, camminare nel raggiungimento di punti per volontà di esperienza, apprendere e comunicare, ascoltare e vedere, si evidenzi attraverso una riappropriazione del valore antico del sagrato, di una sua dilatazione spaziale verso la piazza che aggrega e che smista; un clima che raccoglie le funzioni della corte proiettando il complesso parrocchiale verso i valori civili della ‘città ideale’ del Rinascimento.Sulla base di questi dati culturali, storici e anche antropologicamente depositati, trova ragione il sistema simbolico impiegato a differenziare l’Aula Liturgica e il Battistero dall’Auditorium; dove la socializzazione degli spazi religiosi è avvolgente attraverso la forma circolare, accentuata da un’illuminazione a 360° e su più ordini, mentre la partecipazione laica si colloca all’interno della struttura rigida del quadrato.

Il percorso nello spazio del sagrato
Spigoli tagliati dalla luce limpida e netta del Mediterraneo, estensione curvilinea di superfici abbaglianti di bianco, alte mura di protezione di un luogo sacro, verticalità scultorea e minimale riservata nelle sue mirate funzioni simboliche, accolgono il mio fisico attraversamento pedonale della cittadella dedicata a San Paolo Apostolo. Ora se San Paolo ha come attributi il libro, l’aula liturgica, riconoscibile architettonicamente per intensità di luce, quindi con valore di illuminare il percorso dell’umanità, sia all’esterno che all’interno, non sfugge l’indicazione simbolica, sottolineata dalla forma circolare, di una grande biblioteca, di una sala di lettura e di ascolto, di un ambone che protegge ma che irradia la Parola: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa” (San Paolo Apostolo,dalla Lettera ai Galati). Ogni scatto di luce tersa rivela con funzione di analisi l’esperienza spirituale nella fruizione del volume architettonico in relazione allo spazio che percorro idealmente in un silenzio protetto; linee curve e ampie superfici trasparenti, ora protettive ora aperte coraggiosamente e ospitali, mi accompagnano verso, e all’interno, dello spazio orizzontale del sagrato dilatato e alla piazza di congiunzione; un’atmosfera rigorosa che mai si impone coercitiva, ma si sviluppa e accompagna lungo il tracciato di attraversamento per consegnare emozioni di spiazzamento, suggestioni liberatorie e proiezioni verso le forme più intime di riflessione e di ricerca.Un contesto architettonico articolato tra volumi e superfici che si incontrano e si sovrappongono e sono significativamente presenti nel mosaico del XII-XIII dedicato alla vita di San Paolo, calato dalle mura di Damasco, nel Duomo di Monreale a Palermo; un clima di spaesamento e di concentrazione che mi riconduce a La città ideale di Urbino del 1480 e con esso alla pittura di architettura del Rinascimento; valori espressivi e tensioni metafisiche vissute nello spazio e nella luce delle Piazze di Giorgio de Chirico. Ma l’architettura lungo questo mio viaggio in essa e nella sua frequentazione non risulta solo memoria e ricordo, introspezione di visioni e di sentimenti che conducono alle tensioni della fede e alla trepidazione della spiritualità, ma anche forza attenta della contemporaneità, incisiva volontà di partecipazione attraverso l’innovazione della tecnica, specificità espressiva dei diversi materiali impiegati; il cemento armato, il ferro e il vetro in grandi lastre accompagnano tra dialogo e autonomia, tra funzioni specifiche e valori simbolici il tracciato architettonico del complesso parrocchiale.
Danilo Lisi ha saputo introdurre la condizione di una estetica contemporanea valendosi dei tre materiali e delle loro proprietà e forme; in particolare ha utilizzato quel patrimonio dell’arte che si fonda sui sistemi analitici, che sceglie nel rigore le valenze espressive che sono proprie e interne al vettore di supporto all’edificabilità; in particolar modo si distribuisce sull’impianto visivo delle architetture la tensione minimal della superficie e del segno, la parete e la trave, la geometria scandita dei punti di luce, il confronto tra sistemi orizzontali monocromi, l’estensione dell’uniformità, poi lo scatto improvviso nella verticalità del campanile contrassegnato dall’azione graffiante dei tiranti in acciaio.

Verso un sistema iconografico
Dalla frequentazione esterna alla presenza all’interno dell’architettura è costantemente la luce a scandire i valori dello spazio attraverso inserti mirati nelle superfici murarie; la centralità distribuita e le fonti di luce agiscono con analitica qualità espressiva all’interno dell’Aula Liturgica e nella riservatezza allargata dal Battistero al giardino. Un habitat intenso è quello predisposto da Danilo Lisi, ma esso oggi, offrendosi alla fruizione spirituale e alla partecipazione liturgica, si deve predisporre inevitabilmente a raccogliere tracce e segni, nuovi ricordi e speranze future; aule e corridoi, pareti e coperture sulle quali si posano i nostri occhi relatori di immagini e di emozioni, sulle quali scorrono le nostre mani alla ricerca di un contatto o di un’offerta, restando in ascolto delle relazioni tra le immagini e le voci, tra il colore e le forme.Architettura, questa di Lisi che, come ho premesso, non posso ora non vivere come un grande libro aperto al caleidoscopio dell’esperienza dell’arte quale patrimonio di sempre di cultura e di testimonianza di fede; architettura che si predispone a vivere per raccogliere e rappresentare, pronta a comunicare attraverso le immagini e il colore, le forme e il linguaggio ciò che ancora san Paolo suggerisce nella Lettera ai Filippesi:“In conclusione, fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri” . È all’interno di questa luce e dellapiù ampia tradizione della Chiesa cattolica, del suo patrimonio di cultura e d’arte che si rende fondamentale, con valore di crescita e di arricchimento, la presenza dell’arte contemporanea; lun
ghi anni di un’architettura autoreferenziale, impoverita dalla rarefazione iconografica e decorativa, devono essere superati rendendo di nuovo alla stessa la sua natura originariamente ospitante del colore e della forma; d’altra parte l’esperienza acquisita dalla storia dell’arte sacra moderna e contemporanea pone severamente limiti anche a quella cultura dell’arte che risponde acriticamente ai processi della citazione dal patrimonio, alla ripetizione attraverso la retorica dei materiali, dalla profusione ‘barocca’ del bronzo agli eccessi preziosi del mosaico, allo svuotamento dei significati simbolici, attraverso la perdita della sensibilità culturale, e dello spirito di ricerca e di originalità. Il contenitore sacro predisposto con intelligenza da Danilo Lisi appare pronto a rivestirsi della cultura contemporanea, di un’arte che ha coscienza di sé in rapporto al mistero, che non ha timore ancora del racconto ma vive l’essenza concettuale dell’esperienza spirituale, che elabora il ricordo e interpreta la devozione, che vede nella scrittura, nell’ascolto della parola e della testimonianza, lo spazio ampio salvifico delle immagini visive: “Religiosa, dunque è l’arte, perché conduce l’uomo ad avere coscienza di quell’inquietudine che sta al fondo del suo essere, e che né la scienza, con la formalità oggettiva delle sue leggi, né la tecnica, con la programmazione che salva dal rischio dell’errore, riusciranno mai a soddisfare” (Giovanni Paolo II).Sulla base di queste parole, poste sulla traccia conciliare di Paolo VI, vorrei che si accettasse l’idea di una cultura e di un’arte che nel Ventesimo e Ventunesimo secolo non ama, non cerca, non esprime, non testimonia un presunto universale linguaggio della bellezza; vorrei che si accettasse che la bellezza non è l’obiettivo di una sorta di estetica volontà di potenza che elude a priori il dramma della testimonianza; vorrei che si accettasse che la bellezza non ha sempre rapporti diretti e obbligati con la verità, che la bellezza, come la verità, non sempre mette la gioia nel cuore degli uomini; semmai, vi alita la pura grazia che, talora, è concessa alle molte peripezie che il divino e l’umano affrontano insieme, per venire a capo del senso della creazione. Anche nel passato dell’arte – e dell’arte sacra – la bellezza non è stata l’obiettivo reale, ma spesso un arredo e un presupposto ideologico di maniera, fine a se stesso; e dunque sterile, disgiunto dalla verità. Nel territorio enormemente esteso e variegato del sacro – del sacro cristiano – la natura tormentata e vigile della stabile coscienza del dolore, dell’offesa e dell’umiliazione, l’opera migliore ha riconosciuto la verità dell’arte nella restituzione del difficile confronto dell’uomo con Dio che si rivela e si nasconde nelle sue stesse opere.
La bellezza che doveva apparire è apparsa così: nella lotta con l’ombra, nell’enigma della decifrazione, nella tensione prodotta dall’oscillazione dello spirito fra la presenza e l’assenza di Dio.

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