Come nasce un fiore di ferro

Una grande eredità del ferro

Ci troviamo nel laboratorio della San Pietro Mario erede della migliore tradizione lombarda. Ci fa piacere ricordare nelle parole di Alessandro Mazzucotelli il fascino di questa meravigliosa lavorazione.

Foto di: Francesco Morgana

Dice Alessandro Mazzucotelli: “El fer l’ha de vess trattaa come ona sciôra…come una dama, capite? El par dur e teribil ma con’t on poo de foeug el diventa moresin come la cera. E quand credii ch’el se rivolta, se dev minga trattal mal e piccal giò con furia. Se dev ciappal per el so vers, carezzal… E allora vi darà meraviglie!” E, gigantesco e nerboruto
com’egli è, spiegandovi questi segreti del ferro, piega la testa sopra una spalla con l’aria d’implorare un solo sguardo d’amore, socchiude gli occhi tondi e celesti come se svenisse di tenerezza, intreccia fremendo le due mani enormi,
poi ne spalanca una che par debba ghermire alla gola una belva, e vi passa l’altra su lieve lieve, come si calzasse un

guanto di seta: “Fategli una carezza e vi darà meraviglie…” Da quanti anni i medici curanti dell’arte moderna vantano, al confronto delle scuole accademiche e degli studi solitari chiusi ai profani, la sincerità, la semplicità, l’attività molteplice delle “botteghe” medievali! Se s’ha da tornar grandi, s’ha da tornar piccini, essi dicono, e umili, artigiani prima che artisti; le regole, i gradi, i titoli accademici, i signori professori hanno condotto l’arte alla rovina. Io non so se l’arte sia in rovina. Certo, senza credere che chi tornasse medievale e chi entrasse bambino in uno studio a macinar colori, sarebbe più d’uno studente d’accademia sicuro di diventare a trent’anni Giotto o Michelangelo, si può pur dire che oggi le arti
decorative hanno dato quest’esempio alle arti per superbia dette pure.

Nelle foto: Anche se fare un fiore in ferro può essere visto come un gesto romantico, non si può negare che sia una bella fatica, soprattutto se il risultato vuole essere delicato e pieno di poesia. La partenza è sempre l’idea, l’immagine
che prende forma nella mente del fabbro. Ogni artista, in qualsiasi campo, deve prima di tutto tradurre l’idea astratta che gli proviene dall’immaginazione in un “processo tecnico” inerente al mezzo espressivo da lui scelto, e la sua abilità sta proprio nel non far perdere nulla all’idea originaria, ma nel renderla ancora più viva una volta trasferita nel materiale
voluto, in questo caso il ferro. Per cui un semplice fiore va prima idealmente scomposto nei suoi elementi (il gambo, i petali e gli stami) e poi ripensato in termini di materiali peimari: il tondino e la lastra di ferro.

Oggi chi immagina il cartone di una vetriata, sa cuocere, tagliare e piombare i vetri; chi suggerisce la forma e la decorazione d’un vaso o d’una piastrella di maiolica, s’intende di chimica e conosce il fuoco delle muffole; chi disegna
un’inferiata, sa arroventare, piegare e modellare il ferro. Parlo dei buoni e degl’innovatori. E di questi buoni, Alessandro Mazzucotelli è l’esempio ottimo: è fabbro ed è artista, e così parla della parte piùrude della sua arte con quella delicatezza d’artista, e così quando inventa a penna o a carbone il disegno d’un ferro da battere, pensa o meglio sente quanto spessa avrà da essere la lamina da tagliare e quanto dolce la curva di due sbarre intrecciate.

Nelle foto: alcuni attrezzi da fabbro usati all’inizio del ‘900, semplici pinze e tenaglie con cui afferrare lastre e tondini roventi e porli sull’incudine per batterli, e piccoli stampi dove colare il ferro fuso per i dettagli più corposi.
A fianco: un momento della lavorazione di un ramo, quando alla forma sagomata di una foglia si vuol dare la curvatura desiderata battendola su un piccolo supporto d’acciaio. E’ un mestiere fatto anche di piccoli trucchi.

Anche la decadenza dell’arte del ferro cominciata da noi, e non solo da noi, agli ultimi del settecento con le spranghette parallele e i rombi simmetrici e le greche monotone dello stile poi detto dell’Impero, derivò appunto da questa separazione fra l’architetto “accademico” che disegnava e l’anonimo fabbro che eseguiva. Mazzucotelli che si ricorda come ha cominciato egli stesso, ha fiducia nella spontaneità popolana, e mette in mano al ferraio un pezzo di carbone e gli pone davanti un rotolo di carta gialla. “Fam vedè côme te fariiet…”
E quello comincia, s’affanna, suda, ricomincia. Dopo un’ora interviene il maestro: corregge, cancella, consiglia, lascia allo scolaro l’illusione d’aver fatto tutto da sè.
E quando dal disegno quello passa al ferro e l’arroventa e picchia disperatamente, il buon maestro gigantesco viene lì accanto al fuoco, afferra con le mani enormi il martello e la tenaglia: “Pian bagai. te ghet de tratà el fer côme la toa morosa. Prendilo pel suo verso, fagli una carezza, così…

Un fiore di ferro un gesto romantico, un ferro che si muove, si pone, si configura che diventa un oggetto d’arte che ogni giorno ricorda come anche il materiale più duro se ben lavorato, se amato, diventa poesia. Forse è una metafora della nostra vita quotidiana?

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