Clima e Architettura

Se è evidente che il clima gioca un ruolo fondamentale nella creazione della forma costruita, occorre però dubitare di ogni opinione deterministica estrema.
Come già spiegava Amos Rapoport,1 la forma costruita dipende spesso molto più dalla cultura e da fattori non utilitaristici, che dal clima.
Da una decina d’anni sembra essersi consolidata una comune attenzione ai temi della sostenibilità ambientale. Ma se la dimensione tecnologica della questione è ormai ben conosciuta, quella storicoculturale lo è molto meno.
Propongo di leggere il binomio clima/architettura non come un’endiadi – ovvero nel senso di architettura (bio)climatica – ma piuttosto come un’ipotetica contrapposizione: in principio era … il clima, poi subentra la tecnica come difesa dall’ambiente, che è forte. Con l’invenzione dell’architettura, si torna ad un clima ‘addomesticato’ (un nuovo Eden?) e quindi alla ‘sparizione’ dell’architettura stessa attraverso il controllo dell’ambiente a profitto dell’individuo. Come è cambiato questo rapporto dialettico nella ricerca e nel progetto, dal Movimento Moderno ad oggi?
Il mio contributo propone di ripercorrere a grandi tratti alcuni momenti-chiave di una storia aperta, che offre anche qualche elemento di comprensione della problematica attuale.
L’approccio del Movimento Moderno Gli studi sul clima sono stati al centro della  iflessione teorica degli architetti sin dalla fine del XVIII secolo. Il processo si accelera a partire dalla seconda metà del XIX secolo.
Pensiamo ad esempio al proliferare in Europa di sanatori montani e ospizi marini: un’invenzione di medici ed architetti per curare o prevenire la tubercolosi ed altre malattie epidemiche con l’esposizone al sole.
Subentra poi il movimento igienista, con la teoria dell’asse eliotermico2 di Augustin Rey, le cui preconizzazioni investono non solo l’edificio, ma anche la forma urbana.
Tra gli anni ’30 e ’60 il Movimento Moderno farà dei fattori climatici una fonte di ispirazione importante. Il vincolo climatico è visto dai moderni come fattore modificante, un ‘elemento al contorno’ da studiare, capire ed integrare.
A partire dagli anni ’40-’50 la nozione di ‘comfort ambientale’ sostituisce a poco a poco le prescrizioni puramente igieniste.
A Reyner Banham si deve un’analisi molto acuta di come le innovazioni tecnologiche ed i dispositivi di controllo climatico hanno influito sull’evoluzione dell’architettura.
Banham mostra come fin dai primi anni trenta Le Corbusier avesse introdotto l’uso del brise-soleil come soluzione ai problemi delle facciate ‘pan de verre’ e non esita a definirlo ‘una delle sue più magistrali invenzioni, una delle poche invenzioni architettoniche avvenute ultimamente, utili per il controllo dell’ambiente’.3
Fra i contributi in cui viene esplicitamente trattato il rapporto tra habitat e clima, vale la pena di soffermarsi su quello del ‘Gruppo Marocchino’ dei Ciam.4
In questo contesto di urgenza, ma anche di prosperità economica eccezionale, Michel Ecochard5 aveva elaborato e realizzato l’idea di una ‘trama evolutiva’ per risolvere il problema dell’esodo rurale e delle bidonvilles.Successivamente saranno George Candilis, Alexis Josic e Shadrach Woods a riprendere la nozione di ‘habitat evolutivo’ anche per alcuni progetti realizzati in Francia.6
I fattori climatici sono definiti come elementi determinati dell’alloggio, ed è interessante notare come si cerchi di ridefinire i limiti di un nuovo rapporto tra fattori fisico-ambientali e fattori sociali.
Se ‘norme e standard sono le stesse per i ricchi e per i poveri, determinati dalla biologia’,7 le variabili che ne derivano consentono agli architetti un nuovo grado di libertà nell’elaborazione degli elementi indeterminati, ovvero organizzazione degli spazi, separazione delle funzioni, compenetrazione di spazio interno ed esterno, composizione, trasformazioni successive.
Questo ‘limite mutevole’ consente anche di introdurre nuove pratiche di appropriazione e ri-appropriazione da parte degli abitanti, che sono invitati ad essere ‘architetti nella propria casa’.
Certamente l’apporto delle scienze sociali, ed in particolare dell’antropologia strutturale di Claude Levi-Strauss è stato fondamentale per la riconoscenza delle identità locali da parte degli architetti dell’epoca.

L’evoluzione del concetto di ‘standard climatici dell’habitat’
L’Italia rappresenta un caso paradigmatico – per ragioni sia geografiche che culturali – per le questioni dell’identità e dell’integrazione dei fattori climatici nell’architettura.
Molti architetti razionalisti (Giuseppe Pagano, Franco Marescotti, Giuseppe Vaccaro, Adalberto Libera, per citarne solo alcuni) si dedicano allo studio della ‘casa moderna’ anche da questo punto di vista.
Enrico A. Griffini, nel celebre volume ‘Costruzione razionale della casa’8 dedica un capitolo all’orientamento della ‘casa minimum’, contestando ‘l’opinione diffusa che in Italia l’abitazione possa riunire i migliori requisiti igienici indipendentemente dall’orientazione’.
In anticipo sui tempi, Griffini critica e affina le analisi igieniste correggendo la teoria con altre variabili da prendere in considerazione: la latitudine e, soprattutto, la diversità delle condizioni climatiche dalla regione italiana continentale a quella peninsulare. Propone quindi lo studio simultaneo di vari fattori correlati: orientamento, disposizione dei locali, distanza fra edifici, altezza, linee d’ombra, irraggiamento …
In Libera una presa di coscienza dell’importanza del clima è leggibile fin dai primi progetti per la Libia, intorno al 1927. È questo uno dei temi di maggiore continuità nella sua ricerca progettuale.
All’inizio degli anni ’50 Libera critica l’‘orientamento eliotermico del nord-Europa’, che ritiene ‘non assolutamente valido per il Mediterraneo’.
Ad esempio, una stanza orientata a sud potrà godere del sole basso sull’orizzonte in inverno, mentre d’estate rimarrà abbastanza fresca, grazie all’altezza del sole, che quindi sarà diretto solo per poche ore del giorno.9
Si tratta di contributi significativi perché mostrano una volontà di integrare le ‘variabili’ specifiche al luogo, anche se l’approccio è ancora intuitivo ed empirico.
In ogni caso si arriva progressivamente alla conclusione che ogni discorso sul clima ha un valore scientifico relativo. È impossibile determinare una regola generale per fissare, ad esempio, le dimensioni minime di una corte, anche perché, oltre all’aspetto igienico, occorre tener conto dell’effetto psicologico del soleggiamento …

Richard J. Neutra, o il ‘realismo biologico’
‘Con l’architettura del futuro potremo abitare nei climi più inclementi’, annuncia il titolo di un articolo di Richard Neutra.10
Con un approccio che egli definisce ‘realismo biologico’ (ma che ai nostri occhi sembra quasi prefigurare le utopie tecnofile degli anni ’60)
Neutra afferma: ‘Oggi è un nuovo giorno: un monastero benedettino nel Minnesota, dove la primavera arriva in giugno, può essere costruito come il sacro speco a Roma millecinquecento anni fa, e poi controllato termicamente. Siamo oggi tecnicamente equipaggiati per catturare la temperie meridionale e trasportarla nelle regioni artiche del Canada nord-occidentale (…)’
L’odierna fisiologia dimostra come i più piccoli stimoli possano produrre grandi conseguenze; onde la necessità d’una architettura naturale e biologicamente  giustificata, che potrà sperimentarsi meglio d’ogni altro luogo nelle regioni temperate quali l’Italia e la California e di qui sispargerà fin nei più remoti angoli del mondo.
In realtà il contributo di Neutra andrebbe approfondito anche per le intuizioni con cui,
già alla fine degli anni ’30, aveva anticipato alcuni temi del dibattito internazionale sul Moderno, pur riferendosi al contesto americano: ad esempio quello della ‘tecnologia regionale dell’architettura moderna’ e l’importanza delle ‘determinanti regionali’ nel progetto.11

Energia versus struttura?
In ‘A home is Not a House’,12 Banham affronta ‘la casa americana’, accusando gli americani di non proteggerla da freddo e caldo, con conseguenti sprechi di calore, luce ed energia maggiori di qualunque altro popolo.
Successivamente avrà modo di ampliare la questione:
‘(…) Le società che non costruiscono strutture stabili tendono a raggruppare le loro attività intorno ad alcuni epicentri – un pozzo d’acqua, l’ombra di un albero, un fuoco, un rande maestro – e occupano uno spazio i cui limiti esterni sono vaghi, regolabili in rapporto ai bisogni ed alle funzioni e raramente regolari. (…)Si deve notare che purtroppo questi metodi non appartengono alla tradizione dell’architettuSi deve notare che purtroppo questi metodi non appartengono alla tradizione dell’architettura e neanche a quella dell’architettura moderna, che comporta un ampio uso di rifornimenti energetici all’ambiente. La tradizione dell’architettura, come viene comunemente intesa, si è formata nelle società e nelle culture che hanno affidato l’organizzazione dell’ambiente alle soluzioni strutturali massicce’.13
Un’alternativa è quella presentata nel libro ‘Scenes in America Deserta’ (1982): Banham descrive un ambiente desertico che diventa provvisoriamente ‘ben temperato’, grazie ad una bicicletta, un cappello, un paio di occhiali.14
Questo spunto suggerisce una riflessione parallela sulla smaterializzazione dell’architettura.
Un primo esempio significativo è quello dell’American Woman’s Home di Catherine Beecher (1869). Tutto si organizza intorno ad un foyer, mentre il resto è plan libre e ‘pelle’.15
Con le invenzioni tecnologico-strutturali e l’ottimizzazione di nuovi materiali, anche l’introduzione di dispositivi di controllo climatico contribuisce al dissolversi dell’oggetto architettonico inteso in senso classico.
Per usare termini attuali, potremmo allora chiederci: in che misura la progressiva presa in conto dell’impatto ambientale nella concezione del progetto riduce l’architettura a quasi nulla?
Se ‘la buona architettura è sempre sostenibile’, come sottolineò Franco Purini qualche anno fa a Camerino, è più difficile affermare il contrario, almeno per quanto riguarda l’applicazione generalizzata di elementi di controllo climatico, che non sempre garantiscono il risultato formale sperato.
Non è possible trattare in questa sede una questione così ampia.
Forse la risposta è contenuta proprio nelle opere di alcuni maestri: solo la buona architettura è in grado di superare l’aporia.

Note
1. Rapoport, Amos, ‘Pour une anthropologie de la maison’, Dunod, Paris, 1972.
2. Teoria illustrata in A. Augustin-Rey, J. Pidoux, C. Barde, ‘La science des plans de villes’, Paris/Lausanne, Dunod /Payot et cie., 1928. Contestata dagli anni ‘40 da architetti come Gaston Bardet, ma sostenuta da Le Corbusier nella Ville radieuse, la teoria era basata su ipotesi che si sono rivelate riduttive e scientificamente non esatte, anche se dettate da buone intuizioni.
3. Banham, P. Reyner, ‘The Architecture of the Well-Tempered Environment’, Architectural Press, London, 1969. Per la versione italiana: ‘Ambiente e tecnica nell’architettura moderna’, Editori Laterza, 1995.
Banham non esita peraltro a sottolineare gli ‘errori’ commessi da Le Corbusier – soprattutto negli edifici realizzati fino agli anni ‘30 – a causa delle scarse conoscenze fisico-ambientali dei dispositivi tecnici efficaci per la meccanizzazone del comfort.
4. In realtà il contributo teorico e progettuale del gruppo si situa al confine tra le esperienze dei Ciam e quelle del Team X. Per le vicende legate alla formazione e successive mutazioni del gruppo all’interno dei Ciam, cfr. Cohen, Jean-Louis, Il gruppo degli Architetti Marocchini e l’‘Habitat du plus grand nombre’, Rassegna n. 52, 1992, pp.
58-67.
5. Ecochard, fra i primi architetti francesi ‘emigrati’ a Casablanca, è direttore del Service d’Urbanisme del Protettorato a partire dal 1946.
6. In particolare per il progetto di nuovi quartieri di alloggi a Bagnols-sur-Cèze (1956-
1961), il cui impianto è espressamente dettato da imperativi topografici e climatici.
7. ‘Proposition pour un habitat évolutif’, Candilis, Josic e Woods, Technique et Architecture n. 2, 1959, p. 82-85.
8. ‘Costruzione razionale della casa. Teoria dell’abitazione. Nuovi sistemi costruttivi’, Hoepli Editore, Milano, 1933.
9 . Ibera, A., ‘L’orientamento’, manoscritto inedito, Fondo Libera, Archivio MNAM, Centre Pompidou, Paris. Si veda a questo proposito anche Garofalo, Francesco, ‘Libera e il Mediterraneo’, d’Architettura n. 4, maggio 1991.
10. Ricordiamo che Neutra ebbe un impatto considerevole sugli architetti moderni italiani fin dagli anni ’30: le sue opere e scritti furono abbondantemente divulgati e commentati, in particolare sulle pagine di Casabella e Metron. L’articolo in questione è pubblicato su quotidiano italiano del 1951.
11. Richard J. Neutra: ‘Tecnologia regionale dell’architettura moderna’, Costruzioni-Casabella n. 144, dicembre 1939, p. 21.
12. Articolo pubblicatio sulla rivista Art in America, aprile 1965.
13. Banham, P. R., op.cit.
14. ‘In a landscape where nothing officially exists, absolutely anything became thinkable, and many consequently happen’.
In questo caso Banham sembra però affascinato dall’estetica degli spazi liberi, più che motivato da un vero e proprio spirito ecologico.
15. Banham, P. R., op.cit._

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