Alessandro Camiz


La rue-corridor à deux trottoirs, étouffée entre de hautes maisons, doit disparaître.1 La piazza moderna, ritagliata con calcoli rigorosi, non possiede il pur che minimo contenuto spirituale:
non è che una superficie vuota espressa in metri quadri.2

La carenza di spazi collettivi nella città contemporanea, in parte dovuta ad una mancata attuazione degli strumenti urbanistici e in parte ad un’errata maniera di concepire lo spazio urbano, ha determinato un bisogno insoddisfatto di socialità ed uno straniamento o disidentità relazionale. Quando consideriamo l’architettura dei vuoti, o meglio il progetto delle strade, delle piazze e degli altri spazi pubblici della città, noteremo nella città contemporanea l’assenza di figure riconoscibili e significanti, capaci di per sé di dare identità al vuoto e consequenzialmente alla collettività che lo abita. Prevalgono nella città contemporanea forze economiche che configurano lo spazio urbano secondo le proprie esigenze trascurando completamente quelle degli abitanti. La tesi secondo la quale la figuratività dello spazio vuoto e l’identità collettiva siano correlabili deve ricorrere alla storia per essere dimostrata. Le economie precapitaliste hanno caratterizzato il disegno degli spazi vuoti delle città con alcuni sistemi di segni leggibili sia in pianta che in prospettiva, ovvero percorrendo lo spazio: proprio qui risiede la specificità del segno urbano, il suo duplice livello di lettura.
Bivio, trivio, quadrivio, tridente, croce di strade,3 circus, square, piazza, nelle loro declinazioni materiali dimostrano di essere prospetticamente coerenti con un sistema (Lynch: percorso, limite, nodo, distretto, landmark) di percezione dello spazio, un sistema (Guidoni: antropomorfismo e zoomorfismo come rilettura dei significati profondi) di comunicazione di massa capace di orientare le persone che percorrono lo spazio urbano sia in termini funzionali che simbolici: orientamento e riconoscibilità. L’economia capitalista ha cominciato con lo standardizzare e ripetere questi segni, desemantizzando il contesto, astraendo il simbolo dalla città e predicando talvolta la sua ripetitività.

G. Battista Nolli, Pianta di Roma
L. Quaroni, Piano di zona Casilino, 1965
M. Fiorentino, Corviale, 1975

Curiosamente l’economia capitalista matura ha cancellato tali simboli, come ha cancellato il linguaggio neoclassico dell’architettura, senza inventare un repertorio altrettanto significativo. I luoghi collettivi della città, strade e piazze, seguono un vocabolario formale definito e riconoscibile fatto di forme elementari, quasi sempre caratterizzate da un rapporto prospettico tra di loro: la visibilità e la simmetria sono alcuni degli elementi di relazione e vanno considerati insieme alla importanza del punto di vista nella costruzione del vuoto urbano ad imitazione di un teatro. Questo repertorio formale non solo significa di per sé, ovvero mette in relazione lo spazio percepito dal cittadino-pellegrino con lo spazio della città secondo un sistema di coordinate visive per orientare i percorsi verso le chiese del pellegrinaggio4
ed i luoghi più importanti della città, ma anche è strettamente relazionato agli abitanti. Lo spazio collettivo è sempre delimitato da un fronte urbano continuo (il filo delle facciate degli edifici) progettato omogeneamente e che mette in relazione visiva bidirezionale lo spazio privato con quello pubblico. Lo spazio pubblico è inviluppato da una superficie costituita dalle facciate, luogo dell’affaccio dallo spazio privato su quello pubblico e quindi di intervisibilità e auto-controllo sociale.
Il progetto moderno, declina prevalentemente le sua identità formale come oggetto, l’ architettura soggetto consente invece, attraverso l’espressione formale, di costruire una rete di relazioni e riconosce che la ‘teoria critica della società ha invece per oggetto gli uomini come produttori della totalità delle loro forme storiche vitali’.5 Il vuoto non è più elemento configurabile, ma diventa elemento di risulta delle figure dettate da volumi pieni: in questi termini è avvenuta la fine del progetto urbano.
Questa tesi troverà sostegno dalla comparazione del piano sistino, rappresentato mirabilmente da Giambattista Nolli nella pianta grande di Roma e del Plan Voisin per Parigi di Le Corbusier. Ma già Giovan Battista Piranesi nel suo Campo Marzio aveva prefigurata una città fatta di oggetti giustapposti. Dove il rapporto Monumento spazio collettivo (piazza o strada), era uno dei capisaldi teorici dell’urbanistica precapitalista, magari a fini di propaganda religiosa o politica, ma
comunque strettamente ancorato alle strutture percettive degli abitanti.
Le figure riconoscibili, quindi mentalmente mappabili, dello spazio vuoto erano strumento di orientamento nella città e diventavano elementi di significazione simbolica. Occorre fare attenzione al fatto che la città contemporanea contiene elementi di innovazione, soprattutto per quanto riguarda la mobilità, e che pertanto non sia possibile, come alcuni hanno fatto in passato, riproporre il medesimo sistema di segni per la sua costruzione. Ma è comunque necessario considerare con attenzione la domanda di riconoscibilità ed orientamento degli abitanti della città contemporanea, reintroducendo nel progetto urbano elementi figurativamente significativi dello spazio vuoto.
I grandi PEEP hanno (per il caso romano) provato a ricostruire tale identità segnica, in molti casi avendo un successo per la riconoscibi
lità del luogo, ma tale riconoscibilità è sempre mediata dal pieno e mai dal vuoto. Il confronto con alcuni Piani di zona romani: Piano di Zona n. 23 Casilino, 1965, L. Quaroni; Piano di zona n. 61, Corviale, 1975, M. Fiorentino; Piano di zona n. 38, Laurentino, 1973, P. Barucci; Piano di zona n. 7, Vigne nuove, 1972, Studio Passarelli – dimostra come il rapporto tra volumi edilizi e viabilità trova tutte le espressioni possibili tranne quella naturale, che ha caratterizzato le città precapitalista e basata sulla visibilità. Ovvero nel Laurentino 38 – una importante realizzazione
che recentemente ha subito una demolizione, e che si appresta a subìre la ennesima mutilazione, il progetto descrive il suo spazio vuoto, per tramite di una strada, ma gli edifici ortogonali alla strada definiscono spazi collettivi, distaccati dalla strada e quindi insicuri.
Questo progetto è un esempio di come sia importante il rapporto tra visibilità e controllo sociale: il rapporto tra la superficie sociale della città ed il suo luogo collettivo. Nella città medievale progettata dai liberi comuni il rapporto di visibilità tra emergenze monumentali e spazi pubblici comincia ad affermarsi in maniera decisa.6 In Urbanisme Le
Corbusier aveva postulato la necessità di scollegare quinta urbana e viabilità. Il rapporto che è sempre esistito tra quinta urbana e luoghi collettivi (strade, piazze) viene negato. Questi due elementi sono disgiunti nella Ville Radieuse del 1931 di Le Corbusier, nel Plan Voisin, nella Ville Contemporaine, nel Plan Obus e ancora in Vers une architecture viene messa in forma la critica della rue corridor. Le Corbusier sperimenta tutti i rapporti possibili tra quinta urbana e spazi collettivi: nel plan obus mette la strada sopra edificio, stravolgendo il rapporto di visibilità tra spazi collettivi e spazi residenziali. Il mancato rapporto tra visibilità e spazio sociale genera insicurezza urbana. La protesizzazione della funzione di controllo visivo che avviene con l’inserzione di telecamere negli spazi pubblici è un segnale inquietante che dobbiamo leggere in tempo se crediamo nel ‘recupero di un fondamento estetico nella costruzione dello spazio urbano di uso collettivo’.7

1. Le Corbusier, Urbanisme, Paris 1925.
2. C. Sitte , L’arte di costruire le città. L’urbanistica secondo i suoi fondamenti artistici(titolo originale Der Städte-Bau nach seinen Künsterlischen Grundsätzen, Wien 1889) traduzione di R. Della Torre, Milano 1981, p. 90.
3. E. Guidoni, La croce di strade. Funzione sacrale ed economica di un modello urbano, ‘Lotus international’, XXIV (1979) pp. 115-119.
4. A. Camiz, Gli itinerari delle rogazioni per la storia di Ravenna nel medioevo, in ‘Il tesoro delle città’. Strenna dell’associazione Storia della città, Anno III, Roma 2006, pp. 132-156.
5. M. Horkheimer, Filosofia e teoria critica, Torino 2003, (1968), p. 57.
6. E. Guidoni, Arte e Urbanistica in Toscana. 1000-1315, Roma 1967.
7. R. Panella, Piazze e nuovi luoghi di Roma. Il progetto della conferma e della innovazione, Roma 1997, p. 30.

Bibliografia
C. Sitte , L’arte di costruire le città. L’urbanistica secondo i suoi fondamenti artistici (titolo originale Der Städte-Bau nach seinen Künsterlischen Grundsätzen, Wien 1889) traduzione di R. Della Torre, Milano 1981.
Le Corbusier, Vers une architecture, Paris 1923.
K. Lynch, The image of the city, Cambridge, Massachusssets, and London, England 1960.
M. Horkheimer, Filosofia e teoria critica, Torino 2003, (1968), p. 57.
E. Guidoni, Antropomorfismo e zoomorfismo nell’architettura ‘primitiva’, ‘L’Architettura’, n. 222 (aprile 1974).
A. Ceen, Rome 1748 – The Pianta Grande di Roma of Gian Battista Nolli in Facsimile, Highmount 1991.
R. Panella, L’architettura come arte della deformazione, in Questioni di progettazione, Roma 2004.

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